Secondo me sinologia 汉学与疯狂:体现当代中国 Sinology's Not Dead
Blog senza presunzioni di uno studioso di cultura e società cinese. Troverete qui reportage dalla Cina, racconti di viaggio, pagine di diario, serate goliardiche, sviolinate politico-ideologiche, dibattiti intellettuali e non so cos'altro ancora. 大家好! 我是中国文化与当代社会的一位意大利博士研究生。我爱旅游,写作,看书。其次,我爱这两句话:"世界人民大团结万岁!" 与 "革命不是请客吃饭!"。Welcome everybody in this small free space regarding Chinese culture and society, international politics, academic world, travels and much much more.
Monday, July 29, 2019
Viaggio in Colombia (VII): un paradiso chiamato Nabusimake e l'inferno per raggiungerlo.
Dalla stazione dei bus di Maicao (altra specie di frontiera dove passa di tutto e di tutti/e) tratto il prezzo per un passaggio in un auto condivisa in direzione Valledupar, grande citta' 180 km a sud-ovest, la capitale del folclore e del vallenato (un genere musicale). La spunto per 8 euro circa. In macchina sono con tre donne venezuelane sulla quarantina, di cui una con bimba, piu' i due autisti colombiani cinquantenni. Il viaggio parte malissimo, nel senso che impiegano parecchio tempo per trovare il pieno di benzina piu' economico, poi l'auto si ferma piu' volte, un problema al filtro. "La benzina venezuelana costa poco ma e' sporchissima", commentano. Il viaggio doveva durare cinque ore, ma ne impieghiamo almeno sette. Grande cordialita' nel tragitto, condividiamo di tutto, battute e scherzi a non finire, coi due colombiani che ci provavano in ogni modo con le migranti venezuelane. Arrivo a Valledupar che e' notte. La stazione e' aperta, esco a dare un occhio ma rientro poco dopo: troppi sbandati in giro. L'emozione di rivedere l'acqua corrente. Dei pappagalli tenuti in gabbia e portati a spasso come fanno gli anziani cinesi con i grilli. Mi siedo nei pressi dell'ingresso della stazione a guardare una partitella di calcetto. Poco dopo si ferma un signore, chiede se sono in viaggio e dove sia diretto. Mi dice che devo aspettare la mattina e che la stazione non e' questa. Poco dopo arriva uno di questi ragazzi di strada con una porzione di riso in mano, mi vede e mi fa le stesse domande: "Sei in viaggio? Dove sei diretto?". Anche lui prova a dare la soluzione: "Prendere un taxi ora ti costa dodici euro, oppure domattina prendi un taxi per il centro e da li' un bus per tre euro". Arriva infine una ragazza, la piu' sballata dei tre, si fa offrire del riso dal tale e poi, ovviamente, chiede a me se sono in viaggio. "No, mi ha cacciato di casa mia moglie", rispondo. Risate generali e rientro in stazione, dove passo la notte.
All'alba chiedo informazioni per il centro e prendo un bus diretto a Pueblo Bello, piccola cittadina nel bel mezzo delle montagne del Parque Nacional Sierra Nevada de Santa Marta. L'intezione e' quella di andarmene a fare un po' di trekking in solitaria nei monti abitati dagli indigeni, cercando di arrivare a Nabusimake, un paradiso in terra a 25 km circa da Pueblo Bello. Leggo on-line che proprio qualche giorno prima hanno chiuso il turismo a Nabusimake. Non mi do per vinto. Prima di partire gironzolo per la citta' e faccio un minimo di provviste. Verso le tre di pomeriggio chiedo informazioni ad un gruppo di boy scout cattolici e inizio la camminata. "E' molto lontano", mi fa un ragazzino. Molla i giochini coi nodi e vieni a fare strada con me, penso. Tuttavia il baby boy scout aveva ragione e le seguenti 48 ore saranno un'odissea di sangue e sudore su e giu' per i monti della Sierra, con sole impietoso, acqua che termina quasi subito, il via vai di asini e indigeni, le scarpe che perdono la suola quasi subito e la maglia che si strappa nella foresta. Le condizioni sono pessime, per usare un eufemismo. Ma io non mollo tanto facilmente. "Grande e' la confusione sotto il cielo, la situazione e' eccellente", tanto per citare Mao.
Cammino senza tregua, senza paura, facendo finta di non sentire la stanchezza e la tortura del sole. La strada e' disastrata, un continuo di terra rosa e roccia con grandi solchi e buche a strapiombo. Si procede solo in asino, in moto da cross o in fuoristrada. Passo la prima notte dove capita, all'alba sono di nuovo a camminare. Paesaggi incantevoli, colline e montagne di vegetazione fitta, qualche casa di terra qua e la', gli indigeni di passaggio: bassi, neri, silenziosi, tunica bianca e mula al seguito. Ci sono diversi sentieri che si inerpicano per chissa' dove, ma credevo la "strada" principale fosse soltanto una. Purtroppo, scopriro' tempo dopo, non e' cosi'. Mi perdo nel paesaggio uguale a se stesso, allungando il cammino per Nabusimake di diverse ore. Per fortuna le piante forniscono ombra ed e' pieno di ruscelli a placare la sete. Mi avevano detto di non bere quest'acqua, perche' sporca di insetti, batteri e terra. Non e' stata una scelta, quando non hai altro e fuori fanno quaranta gradi berresti anche il tuo piscio (chiedere ad Aron Ralston o vedere il film "127 ore").
Perso nella foresta inizio a prendere le strade che incrocio, finendo sempre in fattorie private o case di indigeni. Stavo per mollare l'idea di raggiungere Nabusimake e buttarmi nel fiume in un punto che formava una piscina naturale, quando il mio angelo custode prende forma umana e arriva in mio aiuto. Vi presento J.:
15 anni, ragazzino del posto ma non indigeno, veste in abiti civili (T-shirt, jeans, scarpe da tennis) ed e' diretto a scuola, un colegio che si trova proprio a Nabusimake. Non e' cattolico, adora il sole, la terra e l'acqua, come molta gente di qui. Io sono ridotto male e coperto di sudore, lo guardo interdetto per capire dove sia l'inculata, ma lui insiste: mancano ancora tre ore per Nabusimake, andiamo insieme, ci facciamo compagnia. Mentre lo seguo, cercando di capire da dove sia uscito J., gli dico subito che sono a corto di acqua. Mi indica una casa quasi in cima ad una montagna e mi dice che li' ci daranno da bere. Quaranta minuti dopo e' effettivamente cosi': casa di contadini indigeni, l'unico uomo esce per darci il benvenuto, poi J. chiede da bere e da' in cambio una tavoletta solida di canna di zucchero che aveva nello zaino. Mentre il padrone di casa va a prendere l'acqua, scorgo numerosi bambini di eta' diversa che si affacciano per sbirciare. Tacchini, galline, un maiale nero. Ci offrono una pentola di una bevanda densa e scura, che chiamano limonada e credo sia fatta di frutta varia. Ne bevo un litro almeno. E' molto dolce, sa di una marmellata ai pomodori verdi che mi dava mia madre per colazione da bambino. Finiamo tutto il liquido nella pentola, ringraziamo e proseguiamo il cammino.
J. e' molto curioso e mi chiede tante cose di me, del mio viaggio e dell'Italia. In cambio mi racconta della sua vita, dei suoi studi, dei nomi delle piante, delle leggende sulle montagne, delle storie che gli raccontava il nonno e delle "bravate" tipiche della sua eta'. Dello scorso fine settimana, quando si e' scolato una bottiglia di rhum e non sa come sia tornato a casa. O di quella volta che e' stato quindici giorni in una specie di galera per avere consumato una droga che qui chiamano borrachero: se ne mangiano i semi e si hanno allucinazioni, pero' crea danni alla vista e al cervello. Credo sia la pianta dello stramonio. Non gli piace la birra perche' gli da' male allo stomaco. La marijuana gli mette sonno. Da grande fara' il calciatore. Tifa il Nacional di Medellin.
La salita e' da morire, cosi' come la discesa. "Scendere e' piu' stancante che salire", mi fa. Anche in Italia. L'internazionalismo alpinista. Continuo ad avere sete e bevo acqua dai ruscelli. "Io la bevo - dice J. - ma a te fara' male lo stomaco". In assenza di scelte, il problema non sussiste.
Tempo dopo arriviamo effettivamente a Nabusimake. Non una citta', non un villaggio, ma una specie di paradiso disteso su un grande prato verde costeggiato da un fiume sacro agli indigeni e da tanti fiori, animali al pascolo, case indigene sparse. Ringrazio infinitamente J., gli auguro il meglio per i suoi studi e non solo. Speriamo non esageri con alcool e allucinogeni altrimenti fra qualche anno lo troveremo cieco a chiedere l'elemosina per i semafori di Bogota'.
Tempo dopo arriviamo effettivamente a Nabusimake. Non una citta', non un villaggio, ma una specie di paradiso disteso su un grande prato verde costeggiato da un fiume sacro agli indigeni e da tanti fiori, animali al pascolo, case indigene sparse. Ringrazio infinitamente J., gli auguro il meglio per i suoi studi e non solo. Speriamo non esageri con alcool e allucinogeni altrimenti fra qualche anno lo troveremo cieco a chiedere l'elemosina per i semafori di Bogota'.
Mi sdraio a vedere una partita a calcetto tra indigeni. J. mi ha detto che quelli con la tunica bianca si chiamano Teti, coltivano mais e tuberi, mangiano anche gli scoiattoli, sono rispettosi, non hanno niente e dicono di non aver bisogno di niente. Alcuni locali vengono a parlare con me. Da dove vengo, come sono arrivato qui, se tifo per la Juve, se sono sposato e ho figli. La discussione piu' lunga ce l'ho con un allevatore, che partendo dal calcio e dall'economia italiana mi attacca una super pippa sulla religione cattolica e la loro tradizione. Entro nell'unico simil-negozio di alimentari locale. Non vendono acqua perche' nessuno la compra qui, i locali bevono l'acqua del fiume. Faccio provviste per il ritorno: pane, avocado e delle schifossissime bevande zuccherate gassate al colorante.
Incontro di nuovo il tipo fissato col cristianesimo:
"Davvero te ne torni a piedi a Pueblo Bello?", chiede.
"Parto adesso. Vado con Dio!", rispondo.
"Non hai paura? Ci sono tigri e leoni", scherza (immagino).
"Vado con Dio!", gli ripeto.
E riprendo la strada. Stavolta quella giusta, quella che in cinque o sei ore di salite e discese dovrebbe riportarmi a Pueblo Bello. I prati di Nabusimake, il saluto di qualche bambino, galline, cavalli, vacche, maiali, fiori, ruscelli. Sono gia' lontano e passo la notte tra i cespugli in cima ad una montagna. Il vento e' gelido, il silenzio totale. Il freddo mi sveglia, d'altronde siamo ad oltre 2000 metri di altezza. Infreddolito, vestiti sporchi, sono un catorcio di polvere e sudore. Sono quasi le quattro di mattina, c'e' ancora piu' di un'ora per l'alba ma utilizzo l'ultima percentuale di batteria del cellulare per illuminare la strada. Un maiale attraversa. La situazione e' eccellente.
Saturday, July 27, 2019
Viaggio in Colombia (VI): il deserto della Guajira e la frontiera col Venezuela.
Svegliarsi all'alba e alzarsi, con calma, alla scoperta di questa piccola e rilassatissima cittadina sul Mar dei Caraibi: Dibulla. Non trovo molte persone in giro, solo qualche pescatore, ambulanti e i soliti cani spelacchiati. Mi fermo a prendere un caffe' speziato fuori dalla casa di una signora, che cucina anche panini fritti e serve latte. Molti si fermano a fare colazione qui. Seduto fuori dalla casa osservo i passanti. In trenta minuti credo di aver tirato fuori almeno quindici spunti per una tesi in scienze sociali. Mangio anche io qualche arepa con formaggio e pomodoro. Il caffe' e' uno dei principali prodotti d'eccellenza della Colombia, ma a livello popolare lo preparano in maniera molto semplice, senza moka o altre macchinette troppo sofisticate. Il risultato e' un caffe' scialacquito che non sa di caffe'. Peccato. Il pomodoro, se non sbaglio, lo hanno trovato gli europei in terra americana almeno 500 anni fa, ma qui non e' uno degli ortaggi che vedi maggiormente in giro. A Dibulla molte case sono vuote o semi diroccate, di qui non sembra passare molto turismo, per lo meno non quanto nella vicina e piu' celebre Palomino, paradiso dei fricchettoni, dicono. La calma e la lentezza di Dibulla sono quasi fastidiosi, manderebbero in crisi qualsiasi occidentale in vacanza, noi cosi' abituati a ritmi serrati e ansia da stress. L'unica cosa vagamente moderna e' il Pronto soccorso, appena fuori paese. Chiedo indicazioni stradali ad una ragazzina sui 12-13 anni che sta aspettando un mezzo (auto o moto-taxi, di bus non ce ne sono) per andare a scuola. Avro' fatto bene? Bisogna pur dar fiducia alla gioventu'!
Alle 9 di mattina lungo la strada fa gia' un caldo boia, prendo due passaggi per la citta' decisamente piu' grande di Riohacha. Meraviglioso il mercato all'aperto, quel classico caos tropicale di colori, odori e persone che vendono e comprano di tutto, tra il clacson di auto e moto, di bambini di strada, di cani morenti, di baracche decadenti. Cipolle, mango, cocco, mandarini, angurie, banane, lime a volonta'. C'e' anche del coriandolo, capre a pezzi, pesci grandi e piccoli, tuberi vari. Compro e consumo seduta stante un avocado enorme, per poi andare a sbirciare la spiaggia, che e' decisamente la migliore vista sinora: bianca, poco sporca, lunga cinque chilometri e larga un centinaio di metri almeno. Una Copacabana del Caribe.
Il caldo e' massacrante e trovo subito un posto in un taxi condiviso per Uribia, 100 km piu' a nord. In queste auto condivise che fungono da taxi ti ritrovi con chiunque, spesso con giovani donne con prole al seguito. L'autista suona e urla ai lati della strada per raccogliere piu' passeggeri possibile e si parte quando la macchina e' stracarica. Ti ritrovi quindi in braccio bambine di un anno di eta' che non impiegano molto a mettersi in bocca il tuo dito pollice o la maglia lercia di viaggio, con la madre che nel frattempo si e' persa l'altro figlio sotto il sedile, il vecchio a fianco che sviene sulla tua spalla, la nonna col casco di banane da venti chili, il migrante venezuelano con la cassa di Coca Cola, l'indio che si esprime solo a gesti e la radio che sputa musica latina a tutto. I prezzi sono popolari, nel tragitto ci si conosce, l'andatura e' tutto tranne che sicura, in barba ai tanti blocchi stradali della polizia o dell'esercito. Non ho mai visto tanti carri armati lungo le strade come in questo viaggio, forse lasciati li' dopo la resa delle FARC e la fine del conflitto armato con la guerriglia comunista.
Uribia, capitale indigena. E' la cittadina piu' particolare ed esotica vista finora. Circondata da un paesaggio sempre piu' secco e desertico, non offre molto da vedere, se non una piazza in stile coloniale, un mercato molto dinamico, contrabbandieri di benzina venezuelana e strade piene di indigeni di diverse etnie, ma prevalentemente Wayuu. Uomini e donne hanno il tipico viso andino, la carnagione scura e i vestiti tradizionali delle donne africane che troviamo in Italia. Si', insomma, quelle lunghe vesti colorate con tanto di copricapo. Le donne wayuu sembrano Rigoberta Menchú, tanto per darvi un'idea.
Mi hanno detto che dopo Uribia non c'e' piu' niente e di fare scorta di acqua, sigarette e provviste prima di andare nel deserto della Guajira. Sono diretto infatti a Cabo de la Vela, uno dei punti piu' a nord dell'America meridionale. La strada e' sterrata, partono solo jeep e moto, ma ormai e' quasi tramontato il sole e trovo posto solo in una jeep con un altro backpacker colombiano coi rasta. 7 euro il passaggio per un'ora di strada nel bel mezzo del niente. Cactus, baracche di indigeni, l'azzurro del cielo, il giallo della terra. E' cosi' che mi immagino il confine tra Messico e Arizona...
Dal 2004 ad oggi ho visto il deserto del Sahara, del Gobi e del Taklamakan. Resto tuttavia molto colpito dal paesaggio, soprattutto dalla pochissima gente wayuu che qui vive. Non c'e' acqua ne' altra risorsa o economia di sussistenza (eccezion fatta, forse, per il turismo e la pesca). Mi chiedo come facciano a campare. Arrivato a destinazione prendo in affitto un'amaca per quattro euro in una casetta sul mare con altri turisti colombiani. In serata gironzolo per il piccolo villaggio. Non c'e' quasi luce elettrica, cosi' come non c'e' neanche acqua corrente e la doccia i turisti la fanno con delle taniche di acqua, le stesse dove i Wayuu bevono. Mi lavero' un altro giorno. Tutto ovviamente costa di piu' rispetto alle citta' visitate finora. Mi accontento della birra Polar, venezuelana di importazione, che sa di sidro andato a male. In giro qualche giovane locale e l'esercito colombiano. Il giorno dopo faccio una lunga passeggiata tra mare e deserto, fino a quello che chiamano "el faro". Il faro, chiaramente, non c'e'. Prendo poi un passaggio da una camionetta che trasporta bombole di gas e taniche di benzina tra Cabo de la Vela e Uribia. Arrivo ad Uribia che il sole spacca le pietre, di li' subito un passaggio in un taxi condiviso fino a Maicao, nei pressi della frontiera con il Venezuela. La frontiera e' aperta, nel senso che ai venezuelani basta un documento per entrare e uscire liberamente e c'e' un caos di persone e merci difficile da descrivere. Un puzzo incredibile di benzina, persone di ogni eta' comprano e vendono benzina illegalmente ai mezzi di trasporto, in bottiglie di plastica o in taniche da venti litri. Devi stare attento a dove butti la sigaretta. Camion pieni di merce (dalle patate alla Coca Cola, dai dolci ai giochi per bambini) entrano dalla Colombia al Venezuela. Prendere un mezzo per la celebre citta' venezuelana di Maracaibo e' facilissimo, confesso di aver avuto la tentazione di partire anche io, ma non volevo complicarmi la vita con le procedure burocratiche per nazionalita' straniere ne' fare un salto nel paese in profonda crisi economica solo per il gusto di farlo. Mi piazzo invece in una specie di bar sulla strada e osservo esterrefatto questo eccesso di umanita' migrante. Qui tutto e' merce e tutto puo' essere comprato o venduto. Non esistono problemi, esiste solo il prezzo per la soluzione.
Nel formicaio di genti nessuno fa caso a me, che poco dopo riprendo a piedi la strada che riporta, in undici chilometri, a Maicao.
Uribia, capitale indigena. E' la cittadina piu' particolare ed esotica vista finora. Circondata da un paesaggio sempre piu' secco e desertico, non offre molto da vedere, se non una piazza in stile coloniale, un mercato molto dinamico, contrabbandieri di benzina venezuelana e strade piene di indigeni di diverse etnie, ma prevalentemente Wayuu. Uomini e donne hanno il tipico viso andino, la carnagione scura e i vestiti tradizionali delle donne africane che troviamo in Italia. Si', insomma, quelle lunghe vesti colorate con tanto di copricapo. Le donne wayuu sembrano Rigoberta Menchú, tanto per darvi un'idea.
Mi hanno detto che dopo Uribia non c'e' piu' niente e di fare scorta di acqua, sigarette e provviste prima di andare nel deserto della Guajira. Sono diretto infatti a Cabo de la Vela, uno dei punti piu' a nord dell'America meridionale. La strada e' sterrata, partono solo jeep e moto, ma ormai e' quasi tramontato il sole e trovo posto solo in una jeep con un altro backpacker colombiano coi rasta. 7 euro il passaggio per un'ora di strada nel bel mezzo del niente. Cactus, baracche di indigeni, l'azzurro del cielo, il giallo della terra. E' cosi' che mi immagino il confine tra Messico e Arizona...
Dal 2004 ad oggi ho visto il deserto del Sahara, del Gobi e del Taklamakan. Resto tuttavia molto colpito dal paesaggio, soprattutto dalla pochissima gente wayuu che qui vive. Non c'e' acqua ne' altra risorsa o economia di sussistenza (eccezion fatta, forse, per il turismo e la pesca). Mi chiedo come facciano a campare. Arrivato a destinazione prendo in affitto un'amaca per quattro euro in una casetta sul mare con altri turisti colombiani. In serata gironzolo per il piccolo villaggio. Non c'e' quasi luce elettrica, cosi' come non c'e' neanche acqua corrente e la doccia i turisti la fanno con delle taniche di acqua, le stesse dove i Wayuu bevono. Mi lavero' un altro giorno. Tutto ovviamente costa di piu' rispetto alle citta' visitate finora. Mi accontento della birra Polar, venezuelana di importazione, che sa di sidro andato a male. In giro qualche giovane locale e l'esercito colombiano. Il giorno dopo faccio una lunga passeggiata tra mare e deserto, fino a quello che chiamano "el faro". Il faro, chiaramente, non c'e'. Prendo poi un passaggio da una camionetta che trasporta bombole di gas e taniche di benzina tra Cabo de la Vela e Uribia. Arrivo ad Uribia che il sole spacca le pietre, di li' subito un passaggio in un taxi condiviso fino a Maicao, nei pressi della frontiera con il Venezuela. La frontiera e' aperta, nel senso che ai venezuelani basta un documento per entrare e uscire liberamente e c'e' un caos di persone e merci difficile da descrivere. Un puzzo incredibile di benzina, persone di ogni eta' comprano e vendono benzina illegalmente ai mezzi di trasporto, in bottiglie di plastica o in taniche da venti litri. Devi stare attento a dove butti la sigaretta. Camion pieni di merce (dalle patate alla Coca Cola, dai dolci ai giochi per bambini) entrano dalla Colombia al Venezuela. Prendere un mezzo per la celebre citta' venezuelana di Maracaibo e' facilissimo, confesso di aver avuto la tentazione di partire anche io, ma non volevo complicarmi la vita con le procedure burocratiche per nazionalita' straniere ne' fare un salto nel paese in profonda crisi economica solo per il gusto di farlo. Mi piazzo invece in una specie di bar sulla strada e osservo esterrefatto questo eccesso di umanita' migrante. Qui tutto e' merce e tutto puo' essere comprato o venduto. Non esistono problemi, esiste solo il prezzo per la soluzione.
Nel formicaio di genti nessuno fa caso a me, che poco dopo riprendo a piedi la strada che riporta, in undici chilometri, a Maicao.
Thursday, July 25, 2019
Viaggio in Colombia (V): camminate caraibiche e antropologia dell'infradito.
Cammina, cammina, al tramonto supero il fiume Don Diego e giungo in un piccolo villaggio lungo la Statale. E' ormani buio, l'illuminazione e' frutto dei camion che passano e della luce elettrica delle uniche due tiendas (una specie di piccolo alimentari che funge anche da bar) aperte. Stanco della trentina di chilometri percorsi a piedi, getto lo zaino in uno spiazzale in cemento sotto una grata. Mi siedo per vedere la reazione delle poche persone in giro, tanto per capire se sto facendo qualcosa di maleducato, offensivo o comunque inopportuno. Niente, nessuno fa caso a me. Accendo qualche sigaretta e osservo la "vita serale" in questo minuscolo angolo del mondo. Due cose colpiscono la mia attenzione. La presenza di un gruppo di ragazzine tra i 14 e i 18 anni vestite in maniera succinta che, con le sorelline al seguito, si pavoneggiano lungo la strada e parlano, neanche tanto velatamente, di sesso. Ogni tanto passa un ragazzo in moto e ne carica una. La sessualita' non credo sia un tabu' qui. Oltre a loro, noto gironzolare da soli o in gruppo quelli che sembrano membri di una locale comunita' indigena. Vestono in maniera diversa dai colombiani locali e hanno anche una fisionomia diversa: tutti bassi, capelli lunghi neri, carnagione molto scura, tunica bianca e sacca, alcuni hanno un copricapo bianco e degli stivali, gli altri vanno scalzi. Difficile stabilirne eta' o sesso. Sono molto silenziosi, non si fanno notare dagli altri, tranne alcuni che girano a cavallo.
Alle sette e' gia' buio, alle nove la gente si ritira in casa. Butto il sacco a pelo in una zona totalmente in ombra. Piu' tardi anche un indigeno verra' a dormire non distante da me e ci alzeremo assieme al sorgere del sole. Trovo questa cosa strana: perche' questo ragazzo di eta' indefinibile non sta con la sua comunita' e non dorme con la famiglia? Verso le cinque, poco prima dell'alba ci alziamo insieme, lo saluto e lui ricambia. Si piazza lungo la Statale, in attesa di non so cosa. Io riprendo la strada.
E da Radio Malinowski e' tutto. Passo e chiudo.
Passo un intero altro giorno a camminare lungo la Transversal del Caribe, senza una meta precisa, semplicemente adelante!, superando piccoli villaggi di agricoltori e piccoli negozi, qualche ristorante e l'immancabile sala da biliardo, che qui ha la stessa rilevanza sociale di quello che in Cina e' il karaoke: una delle poche forme di relax e divertimento. Quando leggo in alto su un'insegna "Bar e conigliette" e abbasso lo sguardo a vedere ragazzine farmi l'occhiolino, capisco che anche qui praticano il mestiere piu' antico del mondo.
La foresta copre tutto, il paessaggio e' mangiato dalla fitta vegetazione, non ci sono punti di riferimento, solo qualche casolare nelle fattorie qua e la'. Tutto cosi' diverso dalla collina e dalla montagna marchigiana, dove l'antropizzazione e' maggiore e i colori piu' variegati. Caldo e' caldo, ma non piu' che a Macerata, e comunque le piante riescono a far ombra anche sulla strada.
Il vero problema e' l'acqua. Qui non piove da quattro mesi - mi dicono - e in effetti molti ruscelli sono completamente secchi, poca l'acqua anche nei fiumi. Nelle case non vedo acqua corrente, solo contenitori e taniche. Di fatti, la gente si lava nel fiume, gli uomini in pantaloni corti, le donne in canottiera. Nel fiume lavano anche i vestiti, i piatti, si fanno la barba e abbeverano il bestiame.
I cani gironzolano spelacchiati e malnutriti, senza mai abbaiare o essere un pericolo per gli uomini. Ne vedi di vecchi che non si reggono piu' in piedi e carogne ai bordi della strada. Fanno un
gran puzzo che va ad aggiungersi a quello fastidiosissimo della monnezza lasciata ovunque, specie appena fuori paese. I cani non mordono, perche' se ti mordesse un cane qui ti prenderebbe la scabbia, la rabbia, il tetano, la congiuntivite, la malaria, l'aviaria, la SARS, l'URSS, la mucca pazza e il morbo di Crohn.
In serata arrivo nella cittadina di Mingueo. Dall'entrata del Parco di Tairona a qui ho percorso 63 chilometri - dice Google Maps - in due giorni. Non male. Le ferite ai piedi, due magliette da buttare, un odore importante e il mal di schiena. Direi che puo' bastare. Consumo un piatto a base di chorizo (una specie di salsiccia ai ferri), patate lesse, tuberi e lime, una birra gelata e diversi mango che ho raccolto lungo il cammino. Qui la carne ai ferri, con aggiunta di tabasco, lime e salse varie, il riso, il mais, le arepa (frittelle con formaggio) e la frutta tropicale sono alla base dell'alimentazione. Tutto buonissimo, forse solo un po' troppo limitato e ridondante.
Per strada vengo subito affiancato da un auto che mi offre un passaggio per pochi spiccioli, idem poco dopo con un'altra auto. A bordo aria condizionata a tutto e salsa caribe. O almeno credo. Voglio dire, per me tango e reggaeton sono uguali, oramai chiamo "salsa" qualunque tipo di musica in qualche modo riconducibile alla musica latino americana. Una quindicina di chilometri dopo mi lasciano nella tranquilla cittadina di Dibulla, localita' decisamente meno turistica di altre viste finora, consigliata da un'amica spagnola che qui ha viaggiato lo scorso anno. E' ormai buio e mi faccio portare fino in spiaggia. Sono le sette e mezzo di sera circa, il mare fa spavento solo a sentirlo, la spiaggia e' comodissima e vuota, il vento caldo ma violento. Le palme, le stelle, il sacco a pelo, la musica caraibica in sottofondo.
Ci siamo tutti. Buonanotte!
Ci siamo tutti. Buonanotte!
Tuesday, July 23, 2019
Viaggio in Colombia (IV): lungo la Transversal del Caribe.
Bene, cosa sappiamo della Colombia? Molto poco, credo. Che il nome deriva da Colombo, esploratore genovese, che pare qui non vi abbia mai messo piede. Colombia famosa per la produzione e l'esportazione di cocaina e per il celebre narcotrafficante Pablo Escobar. Gli appassionati di calcio ricorderanno Higuita, Valderrama o Asprilla. Gli amanti della musica pop sapranno anche che Shakira e' colombiana. Direi che possiamo fermarci qui. Molto da scoprire dunque.
Lunedi' mattina, prima di lasciare Barranquilla, passo in farmacia, al supermercato e in un negozio di telefonia mobile per acquistare repellenti, creme solari, una scheda sim colombiana e altro potenzialmente utile per affrontare l'on the road caribeño. Qui va di moda chiedere il passaporto per tutto, anche per comprare creme solari. Raggiungo poi a piedi una piccola stazione di autobus nel nord della citta'. Orientarsi non e' difficile, perche' la struttura urbanistica e' una specie di reticolato e le vie si chiamano per numero, un po' come negli Stati Uniti.
Prendo un pulmino per Santa Marta, una citta' turistica a due ore e mezza da Barranquilla, direzione est. Appena arrivato, noto subito il clima diverso: tantissimi i turisti stranieri, notevole l'industria del turismo locale. Non vedevo backpacker dall'ultimo viaggio in Tailandia del 2015. Qui ne vedi ovunque, fuori dai centri commerciali, nei taxi, nelle moto-taxi, nelle jeep, a piedi nel centro storico, sul lungomare, in chiesa o a fare shopping. Un tuffo nel passato. Di citta' cosi' "esotiche" inondate da occidentali in sandali e zaino in spalla ne ho viste a bizzeffe. Il mare non e' granche' neanche a Santa Marta, tantomeno la spiaggia. Santa Marta e' pero' un buon punto di partenza per andare (organizzati) alla scoperta di spiagge caraibiche, escursioni in montagna, visite a comunita' indigene nei paraggi. Dopo aver dato un occhio al centro storico coloniale, entro in tre o quattro agenzie per informazioni su una escursione a Ciudad Perdida (letteralmente "citta' persa, scomparsa"), un sito archeologico sul modello Machu Picchu, luogo sacro agli indigeni Tairona che abitavano queste zone da prima dell'arrivo degli Spagnoli. Il luogo si trova nella folta vegetazione tropicale (qui dicono tropicale, anche se in linea d'aria mi pare si sia piu' vicini all'Equatore) e vi si arriva solo con viaggio organizzato e quattro giorni di marcia forzata. Il programma e' molto appetibile, peccato il prezzo: 315 euro. Sono una bella cifra anche per un umile docente italiano. Decido allora di provare a raggiungere da solo il sito e li' cercare una guida privata.
Passo la notte nella stazione dei pullman, attraversando al tramonto zone perifiche che la suggestione vorrebbe "pericolose". A me e' andata bene e ho camminato per un paio d'ore senza assistere a scene particolarmente terrificanti. Anzi, ogni volta che chiedo aiuto per orientarmi la gente continua a dimostrarsi cortese e disponibile. Alla stazione ho socializzato con dei giovani migranti (credo argentini, dall'accento) che vivono in strada da un po'. Alle cinque di mattina la citta' si sveglia e io, ancora assonnato, mi piazzo in un bar della stazione a consumare un pasto fritto e fissare il via vai di gente di ogni eta', studenti, mamme con bambini, tassisti, impiegati, muratori, artigiani, motociclisti, autisti. C'e' un gran casino gia' all'alba. Chi non ha un lavoro contrattualizzato inizia evidentemente a lavorare appena sorge il sole. Chiedo indicazioni per un bus che mi porti verso il Parco naturale nazionale di Tairona. Mi ritrovo a fare una bella passeggiata nello smog mattutino in una delle principali strade statali che tagliano la citta'. Trovo il bus, che parte quando si riempie e che per me 3 euro mi lascia all'ingresso del parco. Nel tragitto, un sedicente medico botanico ultra cattolico, ci ha illustrato i poteri benefici di una cremina di sua produzione, a base di aloe. Cura i tumori e sbianca le macchie dei vestiti.
Appena arrivato all'ingresso del parco, mi immergo nel fiume e compro pane, acqua e sigarette, con l'intenzione di restare nel parco per due o tre giorni, facendo tappa nelle varie spiagge e sperando di perdermi nella natura selvaggia e dormire sotto le stelle. I miei sogni sono pero' subito interrotti da una ragazza che veste come i commessi da McDonald's: l'ingresso e il pernottamento costano molto di piu' di quanto non credessi e il tragitto e' fisso, senza possibilita' di andarsene per fatti propri. Si entra, si arriva alla meta, si dorme, si torna indietro, si esce. Poco sexy, per i miei gusti. Inoltre la presenza massiccia di turisti occidentali e di infiocchettamenti vari stile Grande muraglia nel tratto Badaling di Pechino, mi portano a cambiare programma: davanti a me ho la Transversal del Caribe, detta anche Ruta Nacional 90, la lunga bretella che iniziando da Panama costeggia la Colombia caribeña e arriva fino in Venezuela. Il richiamo della strada e' troppo forte, saluto la ragazza del McDonald's e inizio a camminare senza meta lungo la Transversal. Il cielo per fortuna e' coperto, ma il caldo si fa sentire ugualmente. So che tra una quindicina di chilometri dovrei incontrare il fiume Guachaca e da li' essere vicino all'ingresso di Ciudad Perdida.
Per la strada sfrecciano camion di grossa portata, pullman e jeep di turisti, moto-taxi e qualche avventuroso in bicicletta. La moto e' il veicolo piu' usato dai locali e non solo. A destra e sinistra terreni privati e fattorie di banani, palme e vegetazione tropicale che non saprei meglio definire. Paesaggi simili a quanto gia' visto a Taiwan, Filippine, Tailandia o Panama. In una tienda (negozio-bar) la mia attenzione e' colta dal baccano di un cucciolo di cane che cerca di azzannare un pappagallo verde, come quelli nei film dei pirati. Un bel benvenuto nella foresta tropicale. Qualche ora dopo, incontro e mi immergo nel fiume Guachaca. A colpirmi e' ancora lo stile di vita (apparentemente cosi' semplice) dei locali e la loro totale indifferenza e abitudine ai turisti, che qui sono sicuramente una risorsa economica importante. Madri giovanissime, bambini in gran quantita', donne anziane di taglia abbondante, uomini al lavoro nei campi o come autisti di moto-taxi. Inizio a socializzare nella speranza di trovare una guida privata per andare a Ciudad Perdida tagliando il costo imposto dalle agenzie di oltre 300 euro per quattro giorni di camminata. Le persone che interrogo rispondo in maniera collaborativa e gentile come sempre, ma ben presto mi rendo conto che qui le poche guide lavorano proprio per quelle agenzie e non si azzarderebbero mai a tagliar via il padrone per servire direttamente il cliente interessato. Sconsolato, proseguo per la strada, fissando il paesaggio di terreni di palme recintati con filo spinato e oltre, ad intuizione, l'oceano.
Monday, July 22, 2019
Viaggio in Colombia (III): di questo fine settimana a Barranquilla.
Arrivato alla stazione dei pullman di Barranquilla, mi riposo un po' per poi prendere un taxi per casa di C. e di W., il suo compagno. Tratto il prezzo, meno di sei euro per dodici chilometri circa. C. e' a lavoro, W. mi aspetta dal terrazzo a braccia aperte: finalmente a casa! Una piccolo appartamento nella zona nord della citta', con due inquilini e un ventilatore sempre acceso per resistere al caldo caraibico. Il tempo di una doccia e sono di nuovo in strada, ad accompagnare W. ad un colloquio in universita'. Poco dopo passiamo a prendere C. all'uscita dal lavoro. Fa strano ma da' sempre una gran gioia riabbracciare un'amica all'altra parte del mondo. Con loro e una loro amica siciliana passero' il fine settimana, a zonzo per la citta', alla scoperta di Barranquilla.
Qui sotto alcune osservazioni collezionate in 48 ore di Colombia da uno che di Colombia non sa niente.
Un pranzo a base di fette di banana fritte, formaggio di mucca e insalata di avocado, pomodori e cipolle. Le serate per bar dove mettono salsa a tutto, a sfondare le orecchie e negare la comunicazione orale. Pero' che spettacolo vedere bar semi pieni di persone tra i 20 e gli 80 anni di eta' ballare assieme in coppia senza tregua, finche' la musica non finisce, finche' c'e' moneta per un'altra birretta gelata. Le strade dei quartieri bui e poco raccomandabili, i cani con tutte le malattie cutanee e non solo. La poverta' come punto di riferimento. Ad essere ghettizata qui sembra essere la classe ricca o benestante, non quella povera, non "il popolo". Dalla mattina alla sera gli spazi pubblici sono pieni di persone di diversa eta' che sono li' "a buscar la vida", a inventarsi lavoretti di servizio per tirare a campare. Dal lavavetri al parcheggiatore abusivo, dal questuante agli ambulanti che sono tantissimi e vendono di tutto. Impressiona la cortesia e la gentilezza dei colombiani. Forse e' un luogo comune che ho letto o sentito chissa' dove, ma anche l'ultimo dei pezzenti quando si rivolge a te lo fa con garbo e saluta con educazione. I colombiani sembrano dare piu' tempo e attenzione all'altro di quanto non veda fare nei paesi europei. Saranno i Caraibi, sara' questo caldo che non conosce cambio di stagione, sara' l'oceano o il colore dei quartieri, l'atmosfera di festa o la mancanza di voglia di farsi divorare da orari e lavoro contrattualizzato. La favela di Villa Caracas, piena di immigrati in fuga dal Venezuela, dove W. ci ha portato a conoscere alcune attiviste. Una grande abbuffata di pesce in un ristorantino in legno tra il mare e il Rio Magdalena, principale fiume colombiano. Una romantica passeggiata lungo lo spiaggia e poi un intero pomeriggio a prendere il sole sul lungomare, un lungomare ahime' pieno di immondizia e un mare non cosi' chiaro e pulito come pensassi. L'Adriatico di Rimini, per intenderci. I peggiori bar dei peggiori barrios, di coca e mignotte, di salsa e passione, di rhum fatto in casa e silicone, di pirati e balenottere. Il calcio, ovviamente. La birra Club Colombia, la birra Aquila. Le sigarette nazionali esportazione senza filtro Piel Roja.
Ma le sigarette meritano un discorso a parte. Odio le sigarette e il vizio del fumo, solitamente cerco di non fumare e non fumo. Pero' in viaggio la sigaretta mi accompagna sempre e adoro comprare e consumare ogni marca e tipo di sigaretta locale. In Cina o a Taiwan, ad esempio, e' una pacchia, cosi' come nei paesi del Mediterraneo o del Medio Oriente, dove fumare e' quasi un obbligo per gli uomini e trovi tabacco in ogni dove e per ogni prezzo. Pensavo fosse lo stesso anche qui, ma mi sbagliavo. Si vede poca gente in giro fumare, le sigarette le vendono per lo piu' sfuse gli ambulanti agli incroci delle grandi strade o le puoi chiedere nei supermercati, dove le tengono "nascoste" in degli scaffalini vicini le casse. Costano relativamente poco (un euro il pacchetto da dieci, due euro quello da venti) ma trovi solo brand americani, tipo Marlboro, Lucky Strike o Chesterfield. Le Piel Roja credo siano una delle poche eccezioni, infatti non e' facile trovarle in giro.
Il weekend e' cosi' volato via che quasi non me ne sono accorto. Stamattina ho salutato amici e neo coinquilini e ho ripreso lo zaino per andarmene a zonzo nel nord est colombiano. La temperatura e' alta, cosi' come il morale. Speriamo la fortuna mi sorrida, da queste parti mi pare di capire ce ne sia bisogno.
¡A la calle, marica!