Saturday, July 27, 2019

Viaggio in Colombia (VI): il deserto della Guajira e la frontiera col Venezuela.


Svegliarsi all'alba e alzarsi, con calma, alla scoperta di questa piccola e rilassatissima cittadina sul Mar dei Caraibi: Dibulla. Non trovo molte persone in giro, solo qualche pescatore, ambulanti e i soliti cani spelacchiati. Mi fermo a prendere un caffe' speziato fuori dalla casa di una signora, che cucina anche panini fritti e serve latte. Molti si fermano a fare colazione qui. Seduto fuori dalla casa osservo i passanti. In trenta minuti credo di aver tirato fuori almeno quindici spunti per una tesi in scienze sociali. Mangio anche io qualche arepa con formaggio e pomodoro. Il caffe' e' uno dei principali prodotti d'eccellenza della Colombia, ma a livello popolare lo preparano in maniera molto semplice, senza moka o altre macchinette troppo sofisticate. Il risultato e' un caffe' scialacquito che non sa di caffe'. Peccato. Il pomodoro, se non sbaglio, lo hanno trovato gli europei in terra americana almeno 500 anni fa, ma qui non e' uno degli ortaggi che vedi maggiormente in giro. A Dibulla molte case sono vuote o semi diroccate, di qui non sembra passare molto turismo, per lo meno non quanto nella vicina e piu' celebre Palomino, paradiso dei fricchettoni, dicono. La calma e la lentezza di Dibulla sono quasi fastidiosi, manderebbero in crisi qualsiasi occidentale in vacanza, noi cosi' abituati a ritmi serrati e ansia da stress. L'unica cosa vagamente moderna e' il Pronto soccorso, appena fuori paese. Chiedo indicazioni stradali ad una ragazzina sui 12-13 anni che sta aspettando un mezzo (auto o moto-taxi, di bus non ce ne sono) per andare a scuola. Avro' fatto bene? Bisogna pur dar fiducia alla gioventu'!

Alle 9 di mattina lungo la strada fa gia' un caldo boia, prendo due passaggi per la citta' decisamente piu' grande di Riohacha. Meraviglioso il mercato all'aperto, quel classico caos tropicale di colori, odori e persone che vendono e comprano di tutto, tra il clacson di auto e moto, di bambini di strada, di cani morenti, di baracche decadenti. Cipolle, mango, cocco, mandarini, angurie, banane, lime a volonta'. C'e' anche del coriandolo, capre a pezzi, pesci grandi e piccoli, tuberi vari. Compro e consumo seduta stante un avocado enorme, per poi andare a sbirciare la spiaggia, che e' decisamente la migliore vista sinora: bianca, poco sporca, lunga cinque chilometri e larga un centinaio di metri almeno. Una Copacabana del Caribe.
  
Il caldo e' massacrante e trovo subito un posto in un taxi condiviso per Uribia, 100 km piu' a nord. In queste auto condivise che fungono da taxi ti ritrovi con chiunque, spesso con giovani donne con prole al seguito. L'autista suona e urla ai lati della strada per raccogliere piu' passeggeri possibile e si parte quando la macchina e' stracarica. Ti ritrovi quindi in braccio bambine di un anno di eta' che non impiegano molto a mettersi in bocca il tuo dito pollice o la maglia lercia di viaggio, con la madre che nel frattempo si e' persa l'altro figlio sotto il sedile, il vecchio a fianco che sviene sulla tua spalla, la nonna col casco di banane da venti chili, il migrante venezuelano con la cassa di Coca Cola, l'indio che si esprime solo a gesti e la radio che sputa musica latina a tutto. I prezzi sono popolari, nel tragitto ci si conosce, l'andatura e' tutto tranne che sicura, in barba ai tanti blocchi stradali della polizia o dell'esercito. Non ho mai visto tanti carri armati lungo le strade come in questo viaggio, forse lasciati li' dopo la resa delle FARC e la fine del conflitto armato con la guerriglia comunista.

Uribia, capitale indigena. E' la cittadina piu' particolare ed esotica vista finora. Circondata da un paesaggio sempre piu' secco e desertico, non offre molto da vedere, se non una piazza in stile coloniale, un mercato molto dinamico, contrabbandieri di benzina venezuelana e strade piene di indigeni di diverse etnie, ma prevalentemente Wayuu. Uomini e donne hanno il tipico viso andino, la carnagione scura e i vestiti tradizionali delle donne africane che troviamo in Italia. Si', insomma, quelle lunghe vesti colorate con tanto di copricapo. Le donne wayuu sembrano Rigoberta Menchú, tanto per darvi un'idea.
Mi hanno detto che dopo Uribia non c'e' piu' niente e di fare scorta di acqua, sigarette e provviste prima di andare nel deserto della Guajira. Sono diretto infatti a Cabo de la Vela, uno dei punti piu' a nord dell'America meridionale. La strada e' sterrata, partono solo jeep e moto, ma ormai e' quasi tramontato il sole e trovo posto solo in una jeep con un altro backpacker colombiano coi rasta. 7 euro il passaggio per un'ora di strada nel bel mezzo del niente. Cactus, baracche di indigeni, l'azzurro del cielo, il giallo della terra. E' cosi' che mi immagino il confine tra Messico e Arizona...

Dal 2004 ad oggi ho visto il deserto del Sahara, del Gobi e del Taklamakan. Resto tuttavia molto colpito dal paesaggio, soprattutto dalla pochissima gente wayuu che qui vive. Non c'e' acqua ne' altra risorsa o economia di sussistenza (eccezion fatta, forse, per il turismo e la pesca). Mi chiedo come facciano a campare. Arrivato a destinazione prendo in affitto un'amaca per quattro euro in una casetta sul mare con altri turisti colombiani. In serata gironzolo per il piccolo villaggio. Non c'e' quasi luce elettrica, cosi' come non c'e' neanche acqua corrente e la doccia i turisti la fanno con delle taniche di acqua, le stesse dove i Wayuu bevono. Mi lavero' un altro giorno. Tutto ovviamente costa di piu' rispetto alle citta' visitate finora. Mi accontento della birra Polar, venezuelana di importazione, che sa di sidro andato a male. In giro qualche giovane locale e l'esercito colombiano. Il giorno dopo faccio una lunga passeggiata tra mare e deserto, fino a quello che chiamano "el faro". Il faro, chiaramente, non c'e'. Prendo poi un passaggio da una camionetta che trasporta bombole di gas e taniche di benzina tra Cabo de la Vela e Uribia. Arrivo ad Uribia che il sole spacca le pietre, di li' subito un passaggio in un taxi condiviso fino a Maicao, nei pressi della frontiera con il Venezuela. La frontiera e' aperta, nel senso che ai venezuelani basta un documento per entrare e uscire liberamente e c'e' un caos di persone e merci difficile da descrivere. Un puzzo incredibile di benzina, persone di ogni eta' comprano e vendono benzina illegalmente ai mezzi di trasporto, in bottiglie di plastica o in taniche da venti litri. Devi stare attento a dove butti la sigaretta. Camion pieni di merce (dalle patate alla Coca Cola, dai dolci ai giochi per bambini) entrano dalla Colombia al Venezuela. Prendere un mezzo per la celebre citta' venezuelana di Maracaibo e' facilissimo, confesso di aver avuto la tentazione di partire anche io, ma non volevo complicarmi la vita con le procedure burocratiche per nazionalita' straniere ne' fare un salto nel paese in profonda crisi economica solo per il gusto di farlo. Mi piazzo invece in una specie di bar sulla strada e osservo esterrefatto questo eccesso di umanita' migrante. Qui tutto e' merce e tutto puo' essere comprato o venduto. Non esistono problemi, esiste solo il prezzo per la soluzione.
Nel formicaio di genti nessuno fa caso a me, che poco dopo riprendo a piedi la strada che riporta, in undici chilometri, a Maicao.

1 Comments:

At 10:16 AM, Anonymous Anonymous said...

Fighissimo Dani! I tuoi racconti fanno sempre piacere, come è sempre un piacere vederti a Roma! (sei bellissimo)
Marta

 

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