Friday, June 30, 2023

Bitch volley...

Wednesday, June 28, 2023

Libro e litro.


Tratto da “Osterie, trattorie e bettole nelle sentenze del Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, saggio breve (2023) di Matteo Petracci, storico maceratese.

Fonte:
https://www.francoangeli.it/rivista/getArticoloFree/72579/It

Monday, June 26, 2023

Vecchi forni di terra a borgo Ficana di Macerata

Sunday, June 25, 2023

Che fare di una bella giornata come questa?

Letture da Dublino...

Saturday, June 24, 2023

Festa dell'AVIS

Monti Sibillini visti dal Sasso d'Italia a Macerata

Colori...

Thursday, June 22, 2023

Il lavoro dei detenuti…

Tratto da “Manuale del processo del lavoro” di Domenico Dalfino e Giuseppe Trisorio Liuzzi

Monday, June 19, 2023

准备好了吗?

东台西台

东台餐前酒
西台晚饭

Sunday, June 18, 2023

Una serie TV sulla prima avvocatessa italiana...


"La legge di Lidia Poët" (2023), di Matteo Rovere e Letizia Lamartire

Meno male.


meno male che ci sei tu
che ci fai piangere

meno male che ci sei tu
che ci fai ridere

... e ancora, e ancora.

婚礼 Giugno matrimoni...

Saturday, June 17, 2023

Della morte della musica

Friday, June 16, 2023


Macerata, quarto convegno biennale della European Association for Chinese Philosophy (EACP) dal tema "Interpretation and Reinvention of Chinese Philosophy" organizzato dal prof. Selusi Ambrogio, presidente dell'EACP.

Info: https://www.ea-cp.eu/uploads/1/3/7/8/137880595/program_eacp23.pdf

Perdere il pelo ma non il vizio...

Thursday, June 15, 2023

Il luogo dove andare a morire.


Basato sulla vera storia di una spedizione in Groenlandia dell'esploratore danese di inizio '900 Ejnar Mikkelsen.

"Against the Ice" (2022), di Peter Flinth

Amicizie, frustrazioni e conflitti sociali nel degrado delle periferie romane...

"Questo mondo non mi renderà cattivo" (2023), serie TV di Zerocalcare

Monday, June 12, 2023

... e quindi così.

Thursday, June 08, 2023

È nato Cecio: cronaca di un travaglio.


Ciao. Il 6 giugno alle ore 6.12 è venuto al mondo Carlo, nostro figlio, per gli amici “Cecio”. Non so descrivervi l’emozione, neanche ci provo. Provo invece nelle prossime righe a descrivere le ore prima del parto, le ore in ospedale, quello che (soprattutto E., la mia compagna) abbiamo vissuto. Penso possa essere utile a chi dovrà affrontare questo importante esame della vita (altro che l’Esame di Stato, altro che il 高考 Gaokao, altro che l’esame per la patente, altro che i concorsi…) e spero che le informazioni qui sotto possano dare un’idea più concreta a espressioni quali “ricovero in ginecologia”, “travaglio”, “assistere al parto”. È lunga, ma per chi fosse interessato/a: buona lettura!

Partiamo dall’inizio. C’è un metodo (immagino) scientifico a me ancora poco chiaro per il quale ipotizzano la data del parto a 40 settimane dall’ultima mestruazione. Insomma, se la donna ha avuto l’ultima perdita di sangue il primo gennaio, probabile che il bimbo o la bimba nascerà a metà settembre. Può anche nascere giorni o settimane prima, massimo dieci o quindici giorni dopo. Il parto può essere naturale o chirurgico (il famoso “taglio cesareo”). Non chiedetemi perché si calcola dall’ultimo ciclo mestruale e non dalla presunta data del concepimento: non lo so, ho provato a capirlo, fallendo miseramente.

A me le 40 settimane sono volate. Voglio dire, una volta che sai che diventi padre, passi le prime settimane col bicchiere in mano a brindare con qualunque persona ti capiti sottomano, dal migliore amico alla commessa del supermercato, dal collega antipatico al vigile che ti sta facendo la multa. Diciamo per un paio di mesi. O, per lo meno, per me è stato così. Poi ti limiti a continuare la tua vita fatta di lavoro e di routine, osservando la pancia della tua compagna crescere. Qualche controllo in ospedale, ma niente di che (se le cose procedono nel giusto verso). Certo, sono emozionanti le ecografie, dove senti il battito cardiaco del bimbo e inizi a scoprirne le forme. Le volte che hanno sottoposto E. a un esame per vedere se tutto fosse a suo posto le ho vissute come se andassi al patibolo. Ma per fortuna, al momento, è andato tutto come meglio non poteva.

Gli ultimi due mesi sono più impegnativi. Non tanto per te, quanto per la tua compagna. Ricorda: è lei che porta avanti la gravidanza, è lei che eventualmente fa delle rinunce (lavoro, alimentazione, aperitivi, tabacco, viaggi, ecc…) ed è il suo corpo che cambia, si gonfia, si sforma. Lì devi essere bravo a fare una cosa: esserci. Esserci come stampella per la vita. Attenzioni, cure, coccole, aiuto in tutte le attività della giornata. Avrei potuto fare molto meglio, ma più o meno credo di aver fatto il mio. Se tutto procede bene e arrivi alla 40esima settimana allora ci siamo. La tua compagna non vede l’ora di partorire, conoscere suo figlio o sua figlia, terminare questi ultimi nove mesi decisamente duri e stressanti.

Nella notte tra giovedì e venerdì del 2 giugno, E. ha iniziato ad avere delle lievi e incostanti contrazioni. Me le ha descritte come delle fitte al basso ventre, simili a dolori mestruali, leggermente più forti. Stessa cosa è avvenuta la notte dopo. Dicono che quando le contrazioni si fanno più costanti e dolorose o quando “si perdono le acque” è ora di recarsi in ospedale. Giornate di pioggia, distesi sul divano, tra film e cazzeggio, in osservazione e attesa. Domenica sera, intorno alle 11, siamo andati al nosocomio per un controllo. Reparto di Ginecologia dell’ospedale Silvestrini di Perugia. Non c’è anima in giro, d’altronde è notte. Medico giovane e sveglio, gentile e sorridente. Visitano E., non sembra essere ancora il momento del ricovero, forse ci rimandano a casa, ma durante un'ultima occhiata E. perde del liquido tra le gambe e decidono così di ricoverarla. La aiuto a sistemarsi in camera, poi torno a casa.

Il giorno dopo, lunedì, i dolori da contrazione iniziano a farsi più regolari e forti. In reparto ti fanno esami regolarmente, in particolare il "Monitoraggio", andando a tenere sotto controllo il battito del bimbo attraverso un piccolo macchinario. Nelle altre stanze donne incinta e puerpere, si sentono neonati piangere, donne soffrire di dolore. I medici indossano il camice bianco, le ostetriche viola o blu, le infermiere verde, le O.S.S. di colore arancio. Ambiente (nonostante tutto) rilassato e molto umano. Arrivano la mamma e la sorella di E. a darci man forte. Più tardi arriverà anche il papà. Verso le 16 i dolori iniziano a essere forti davvero, una specie di crampo bestiale alla pancia, durano circa un minuto e si ripetono ogni cinque o dieci minuti. È l’inizio delle doglie, l’inizio del travaglio. “Travaglio” richiama il termine omofono del francese, castigliano o siciliano che significa “lavoro”. In inglese infatti si dice semplicemente “labour”, mentre in cinese è “待产”, ovvero “attesa della produzione”. Sapevo di dover vedere la mia compagna soffrire, sapevo che ne avrei fatto volentieri a meno, quel senso di impotenza e dispiacere massimo, ma sapevo anche di dover star lì. È nostro figlio che sta per venire al mondo, dove altro dovresti essere? Non puoi andare al bar a vedere la partita di calcio in TV o a fare una passeggiata per l’Appennino Umbro-Marchigiano. No. Devi stare lì. Utile come un mozzicone di sigaretta sul marciapiede. Ma quello è il tuo posto e lì devi stare.

Ovviamente le gestanti non possono assumere droghe, farmaci o antidolorifici perché andrebbero direttamente anche al bimbo o alla bimba che hanno in pancia e questo è sconsigliato, fra gli altri, dall’Organizzazione mondiale della sanità. Lascio E. nella sua stanza mentre si contorce dal dolore, il tempo delle visite è finito, dal reparto ci chiedono di uscire, mi siedo fuori nel corridoio, mamma e sorella di E. vanno a casa a dormire. È una cosa snervante, si chiama "Attesa", la viviamo da settimane e io la gestisco molto male, essendo una persona iperattiva, ansiosa, incapace di aspettare o essere aspettato. Ma tanto non c’è scelta. Cammino, cammino, mi siedo sulle sedie nei corridoi deserti dell’ospedale, leggo qualcosa, ascolto musica, bevo caffè, mastico. Mi stendo su delle sedie di ferro, decisamente non comode, ripenso a quando, una ventina di anni fa, amavo vagabondare solitario e dormivo spesso nelle stazioni, nei parchi, nelle buie vie cittadine. Ora neanche ci provo: mi farebbe male tutto. Penso a questo, sdraiato come un barbone, quando dal reparto esce una ragazza in camice blu che mi fa segno di entrare. Sono circa le 1.30 di notte.

Trovo E. in camera, sudata e straziata dal dolore. L’ostetrica, che si chiama come E., mi dice sottovoce che è ora di entrare in sala parto. Mi dice di portare acqua e vestiti puliti per E. e il nascituro. Sono già rincoglionito dalla stanchezza e dallo stress dell’attesa, obbedisco per quanto posso, in religioso silenzio. Saluto la compagna di stanza di E., anche lei prossima al parto, le spengo la luce e la vedo preoccupata per i gemiti di dolore di E., che a breve saranno anche i suoi.

Un’altra ostetrica ci accompagna in sala parto. E. è su una sedia a rotelle, a me fanno indossare panni puliti, simili a quelli dei chirurgo in sala operatoria. Entriamo finalmente in sala parto, via vai di persone, camici di colore diverso, età media molto bassa, c’è tempo per qualche battuta, di là c'è una bambina appena nata, si chiama Sofia e sta conoscendo il mondo con i suoi primi pianti. Io mi preoccupo solo di non essere di intralcio, mi metto in un angolo della stanza, passo la bottiglia dell’acqua in continuazione a E., che è stesa su un lettino operatorio, seminuda, tra lamentele e dolorose contrazioni. Nelle scorse 48 ore ho visto donne urlanti di dolore che gridavano aiuto con le ostetriche al loro fianco. Sai che ora tocca a te e non è facile viverla con gioia.

Mi fanno uscire perché le praticano l'epidurale, una forma di anestesia alla donna partoriente, un ago nella spina dorsale collegato poi alla spalla con un piccolo cannuccio dal quale inietteranno, se necessario, altro liquido. Rientro in sala, l’anestesista e l’assistente sono usciti, restiamo io, E., una giovane ostetrica di nome S. e una collega che va e viene. Mi colpiscono subito la lunga e folta coda di S., i suoi occhi tinti di nero e, soprattutto, la capacità di avere calma e pazienza in una situazione di sangue, merda e dolore. Sì, perché se ci fosse là fuori qualcuno che ancora non lo sapesse, il parto, soprattutto il primo parto, è questo: sangue, merda e dolore. Che la donna vive sul e dal suo corpo. Te, uomo, fai lo spettatore.

Sento tutta la stanchezza delle ultime ore, non sono abituato a sangue, merda e dolore, quindi cerco subito una sedia e la metto tra me e il muro: so che non riuscirò a stare in piedi tutto il tempo, spero solo di non svenire, non vorrei dare altro impegno o preoccupazioni al personale medico sanitario. Sono le ore 2.30 circa, inizia un percorso che non pensavo tanto lento e prolungato. S. continua a sorridere, a calmare E. e a sostenerla psicologicamente nel travaglio. L’anestesia fa effetto in quindici minuti, E. sta meglio, scherza con le ostetriche, spinge più che può, se la cava alla grande. Io non riesco a dire niente, mi limito a far finta di sorridere e starmene zitto. Ci sono state un paio di occasioni in sala parto dove sembrava (sembrava a me, si capisce) che tutto stesse andando per il peggio, la prima volta osservando una macchina che rileva il battito del bambino, una seconda volta di fronte alla marea di sangue sotto i miei occhi. Non ho detto nulla, sono riuscito a non svenire, ma ero pronto ad affrontare l'abisso di disperazione scappando via e dando di matto. Per fortuna non c’è stato niente di tutto questo, ma credetemi se vi giuro che in quelle due occasioni, in pochi secondi, ho perso una ventina di anni di vita.

Arriva anche L., giovane donna, medico chirurgo, occhi e sorriso importanti. Metterà dei punti a E. e starà lì a scherzare e fare i complimenti a lei e al piccolo, perché con S. (le nostre due eroine, angeli senza ali) sostengono che sia stato un parto rapido, più tranquillo del solito, quasi divertente, dove bimbo e mamma sono stati bravissimi. Intanto di là arrivano urla di dolore e grida di protesta, una mamma straniera al quarto figlio che non parla granché di italiano. Mentre qui, sempre qui, con l’aiuto di S. e dell'altra ostetrica, E. cambia in continuazione posizione e spinge con tutta la forza che ha a ogni contrazione, si lamenta a volte del dolore, altre volte vorrebbe mollare, pensa di non farcela.

Invece alle 6.12 S. afferra la testolina del bambino ormai spuntata fuori ed estrae il resto del corpicino, con tanto di cordone ombelicale, placenta e più di mezzo litro di sangue. Sono subito in cinque sopra a E., chi assorbe, chi taglia, chi cuce, chi lava. Movimenti meccanici, coordinati, esperti nonostante le giovani età. Io sono immobile, incredulo, scioccato. E. è stata una leonessa, le mettono il bambino al petto, a me danno delle forbici chirurgiche e mi chiedono se voglio tagliare il cordone. No, non voglio, ma non ho la forza per oppormi, prendo le pinze e taglio dove S. mi indica. Poi portano via il bambino, danno una rassettata alla stanza, ci riempiono di auguri, ci chiedono il nome, si complimentano con E., ci lasciano soli nel silenzio della stanza, con la luce soffusa e il bambino in un contenitore riscaldato lì vicino. Una giovanissima infermiera ci comunica peso e altezza: 3,880 chili per 48 centimetri. Lo avvolge in un panno e ce lo consegna. Restiamo quindi soli, io, E. e il nostro Carlo per circa un’oretta. Emozioni indescrivibili.

Indescrivibili come queste 14 ore di travaglio, di cui 5 passate in sala parto. Una via di mezzo tra una macelleria, il set di un film splatter anni ’70 e un documentario di scienze naturali. Sangue, sudore, dolore, grida, concitazione, via vai di persone, pianti di bambini, camici, urla di donne, luce soffusa, ferri da chirurgo, lettini, garze, placenta, cordone ombelicale, farmaci, siringoni, imprecazioni: questo a grandi linee il travaglio che ho vissuto in diretta. Protagoniste assolute le donne. Nello specifico, ostetriche da una parte, gestanti dall’altra.

Mentre un’ostetrica più d’esperienza lava Carlo, gli presta le prime cure e farmaci, lo spupazza e lo veste, io afferro il cellulare e inizio a comunicare la lieta notizia. Mamma e sorella di E. si precipitano in ospedale e noi poco dopo siamo fuori dalla sala parto a iniziare questa vita assieme. Alle neo mamme mazzi di fiori a non finire, io però ho optato per l’opzione “Non fiori ma opere di bene”, presentandomi al capezzale del lettino di E. con un pregiata bottiglia di rhum.

Alla chirurga, alle ostetriche, al personale tutto, ai lavoratori e alle lavoratrici del reparto di Ginecologia dell’ospedale Silvestrini di Perugia va il nostro più profondo e sincero riconoscimento.

p.s. Cara S., se Carlo fosse nato femmina, l’avremmo chiamata come te.

Perugia by night

Sunday, June 04, 2023

待产 Attesa...

相扑人 Il sumo delle donne.


Breve documentario sull'atleta di sumo giapponese Hiyori Kon.

"Little Miss Sumo" (2018), di Matt Kay

Sulla conquista ottomana di Costantinopoli (1453) e la fine dell'Impero romano d'Oriente

"L'Impero Ottomano" (2020), di Emre Sahin (serie Netflix)

Saturday, June 03, 2023

La solitudine dell'anatra...

Friday, June 02, 2023

Viva il re al patibolo!

“Repubblicano [...] sì. Ma non significa nulla. Res publica, la cosa pubblica. Chiunque si interessi alla cosa pubblica può definirsi repubblicano. Anche i re sono repubblicani.”
(Pierre-Joseph Proudhon, 1809-1865)

Non so se anche i re siano repubblicani, ma nello Stivale dopo il 25 aprile non c’è festa più bella.
Viva il 2 giugno, viva la repubblica, via Gaetano Bresci!

REINCIDENTES - La Republicana
https://www.youtube.com/watch?v=cfpdQ1dsjC8

Thursday, June 01, 2023

Convento di San Bartolomeo di Marano, Foligno (PG)

Abbazia di Santa Croce in Sassovivo, Foligno (PG)