Monday, July 29, 2019

Viaggio in Colombia (VII): un paradiso chiamato Nabusimake e l'inferno per raggiungerlo.


Dalla stazione dei bus di Maicao (altra specie di frontiera dove passa di tutto e di tutti/e) tratto il prezzo per un passaggio in un auto condivisa in direzione Valledupar, grande citta' 180 km a sud-ovest, la capitale del folclore e del vallenato (un genere musicale). La spunto per 8 euro circa. In macchina sono con tre donne venezuelane sulla quarantina, di cui una con bimba, piu' i due autisti colombiani cinquantenni. Il viaggio parte malissimo, nel senso che impiegano parecchio tempo per trovare il pieno di benzina piu' economico, poi l'auto si ferma piu' volte, un problema al filtro. "La benzina venezuelana costa poco ma e' sporchissima", commentano. Il viaggio doveva durare cinque ore, ma ne impieghiamo almeno sette. Grande cordialita' nel tragitto, condividiamo di tutto, battute e scherzi a non finire, coi due colombiani che ci provavano in ogni modo con le migranti venezuelane. Arrivo a Valledupar che e' notte. La stazione e' aperta, esco a dare un occhio ma rientro poco dopo: troppi sbandati in giro. L'emozione di rivedere l'acqua corrente. Dei pappagalli tenuti in gabbia e portati a spasso come fanno gli anziani cinesi con i grilli. Mi siedo nei pressi dell'ingresso della stazione a guardare una partitella di calcetto. Poco dopo si ferma un signore, chiede se sono in viaggio e dove sia diretto. Mi dice che devo aspettare la mattina e che la stazione non e' questa. Poco dopo arriva uno di questi ragazzi di strada con una porzione di riso in mano, mi vede e mi fa le stesse domande: "Sei in viaggio? Dove sei diretto?". Anche lui prova a dare la soluzione: "Prendere un taxi ora ti costa dodici euro, oppure domattina prendi un taxi per il centro e da li' un bus per tre euro". Arriva infine una ragazza, la piu' sballata dei tre, si fa offrire del riso dal tale e poi, ovviamente, chiede a me se sono in viaggio. "No, mi ha cacciato di casa mia moglie", rispondo. Risate generali e rientro in stazione, dove passo la notte.

All'alba chiedo informazioni per il centro e prendo un bus diretto a Pueblo Bello, piccola cittadina nel bel mezzo delle montagne del Parque Nacional Sierra Nevada de Santa Marta. L'intezione e' quella di andarmene a fare un po' di trekking in solitaria nei monti abitati dagli indigeni, cercando di arrivare a Nabusimake, un paradiso in terra a 25 km circa da Pueblo Bello. Leggo on-line che proprio qualche giorno prima hanno chiuso il turismo a Nabusimake. Non mi do per vinto. Prima di partire gironzolo per la citta' e faccio un minimo di provviste. Verso le tre di pomeriggio chiedo informazioni ad un gruppo di boy scout cattolici e inizio la camminata. "E' molto lontano", mi fa un ragazzino. Molla i giochini coi nodi e vieni a fare strada con me, penso. Tuttavia il baby boy scout aveva ragione e le seguenti 48 ore saranno un'odissea di sangue e sudore su e giu' per i monti della Sierra, con sole impietoso, acqua che termina quasi subito, il via vai di asini e indigeni, le scarpe che perdono la suola quasi subito e la maglia che si strappa nella foresta. Le condizioni sono pessime, per usare un eufemismo. Ma io non mollo tanto facilmente. "Grande e' la confusione sotto il cielo, la situazione e' eccellente", tanto per citare Mao.    

Cammino senza tregua, senza paura, facendo finta di non sentire la stanchezza e la tortura del sole. La strada e' disastrata, un continuo di terra rosa e roccia con grandi solchi e buche a strapiombo. Si procede solo in asino, in moto da cross o in fuoristrada. Passo la prima notte dove capita, all'alba sono di nuovo a camminare. Paesaggi incantevoli, colline e montagne di vegetazione fitta, qualche casa di terra qua e la', gli indigeni di passaggio: bassi, neri, silenziosi, tunica bianca e mula al seguito. Ci sono diversi sentieri che si inerpicano per chissa' dove, ma credevo la "strada" principale fosse soltanto una. Purtroppo, scopriro' tempo dopo, non e' cosi'. Mi perdo nel paesaggio uguale a se stesso, allungando il cammino per Nabusimake di diverse ore. Per fortuna le piante forniscono ombra ed e' pieno di ruscelli a placare la sete. Mi avevano detto di non bere quest'acqua, perche' sporca di insetti, batteri e terra. Non e' stata una scelta, quando non hai altro e fuori fanno quaranta gradi berresti anche il tuo piscio (chiedere ad Aron Ralston o vedere il film "127 ore"). 

Perso nella foresta inizio a prendere le strade che incrocio, finendo sempre in fattorie private o case di indigeni. Stavo per mollare l'idea di raggiungere Nabusimake e buttarmi nel fiume in un punto che formava una piscina naturale, quando il mio angelo custode prende forma umana e arriva in mio aiuto. Vi presento J.:

15 anni, ragazzino del posto ma non indigeno, veste in abiti civili (T-shirt, jeans, scarpe da tennis) ed e' diretto a scuola, un colegio che si trova proprio a Nabusimake. Non e' cattolico, adora il sole, la terra e l'acqua, come molta gente di qui. Io sono ridotto male e coperto di sudore, lo guardo interdetto per capire dove sia l'inculata, ma lui insiste: mancano ancora tre ore per Nabusimake, andiamo insieme, ci facciamo compagnia. Mentre lo seguo, cercando di capire da dove sia uscito J., gli dico subito che sono a corto di acqua. Mi indica una casa quasi in cima ad una montagna e mi dice che li' ci daranno da bere. Quaranta minuti dopo e' effettivamente cosi': casa di contadini indigeni, l'unico uomo esce per darci il benvenuto, poi J. chiede da bere e da' in cambio una tavoletta solida di canna di zucchero che aveva nello zaino. Mentre il padrone di casa va a prendere l'acqua, scorgo numerosi bambini di eta' diversa che si affacciano per sbirciare. Tacchini, galline, un maiale nero. Ci offrono una pentola di una bevanda densa e scura, che chiamano limonada e credo sia fatta di frutta varia. Ne bevo un litro almeno. E' molto dolce, sa di una marmellata ai pomodori verdi che mi dava mia madre per colazione da bambino. Finiamo tutto il liquido nella pentola, ringraziamo e proseguiamo il cammino. 
J. e' molto curioso e mi chiede tante cose di me, del mio viaggio e dell'Italia. In cambio mi racconta della sua vita, dei suoi studi, dei nomi delle piante, delle leggende sulle montagne, delle storie che gli raccontava il nonno e delle "bravate" tipiche della sua eta'. Dello scorso fine settimana, quando si e' scolato una bottiglia di rhum e non sa come sia tornato a casa. O di quella volta che e' stato quindici giorni in una specie di galera per avere consumato una droga che qui chiamano borrachero: se ne mangiano i semi e si hanno allucinazioni, pero' crea danni alla vista e al cervello. Credo sia la pianta dello stramonio. Non gli piace la birra perche' gli da' male allo stomaco. La marijuana gli mette sonno. Da grande fara' il calciatore. Tifa il Nacional di Medellin. 
La salita e' da morire, cosi' come la discesa. "Scendere e' piu' stancante che salire", mi fa. Anche in Italia. L'internazionalismo alpinista. Continuo ad avere sete e bevo acqua dai ruscelli. "Io la bevo - dice J. - ma a te fara' male lo stomaco". In assenza di scelte, il problema non sussiste.
Tempo dopo arriviamo effettivamente a Nabusimake. Non una citta', non un villaggio, ma una specie di paradiso disteso su un grande prato verde costeggiato da un fiume sacro agli indigeni e da tanti fiori, animali al pascolo, case indigene sparse. Ringrazio infinitamente J., gli auguro il meglio per i suoi studi e non solo. Speriamo non esageri con alcool e allucinogeni altrimenti fra qualche anno lo troveremo cieco a chiedere l'elemosina per i semafori di Bogota'.

Mi sdraio a vedere una partita a calcetto tra indigeni. J. mi ha detto che quelli con la tunica bianca si chiamano Teti, coltivano mais e tuberi, mangiano anche gli scoiattoli, sono rispettosi, non hanno niente e dicono di non aver bisogno di niente. Alcuni locali vengono a parlare con me. Da dove vengo, come sono arrivato qui, se tifo per la Juve, se sono sposato e ho figli. La discussione piu' lunga ce l'ho con un allevatore, che partendo dal calcio e dall'economia italiana mi attacca una super pippa sulla religione cattolica e la loro tradizione. Entro nell'unico simil-negozio di alimentari locale. Non vendono acqua perche' nessuno la compra qui, i locali bevono l'acqua del fiume. Faccio provviste per il ritorno: pane, avocado e delle schifossissime bevande zuccherate gassate al colorante. 
Incontro di nuovo il tipo fissato col cristianesimo:
"Davvero te ne torni a piedi a Pueblo Bello?", chiede.
"Parto adesso. Vado con Dio!", rispondo.
"Non hai paura? Ci sono tigri e leoni", scherza (immagino).
"Vado con Dio!", gli ripeto.

E riprendo la strada. Stavolta quella giusta, quella che in cinque o sei ore di salite e discese dovrebbe riportarmi a Pueblo Bello. I prati di Nabusimake, il saluto di qualche bambino, galline, cavalli, vacche, maiali, fiori, ruscelli. Sono gia' lontano e passo la notte tra i cespugli in cima ad una montagna. Il vento e' gelido, il silenzio totale. Il freddo mi sveglia, d'altronde siamo ad oltre 2000 metri di altezza. Infreddolito, vestiti sporchi, sono un catorcio di polvere e sudore. Sono quasi le quattro di mattina, c'e' ancora piu' di un'ora per l'alba ma utilizzo l'ultima percentuale di batteria del cellulare per illuminare la strada. Un maiale attraversa. La situazione e' eccellente. 

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