Diario di viaggio (IX): Hebron, ovvero come ci si sente nel cuore dell'olocausto, nel centro dell'assurdo
"Il quinto dice non devi ammazzare"
La mattina del 15 agosto scrocchiamo un passaggio in pulmino ai ragazzi catalani, da Betlemme ad Hebron, mezz'ora di strada piu' a sud, dove ci lasciamo. Tramite Couch Surfing (un network di persone da tutto il mondo che cercano od offrono ospitalita', in culo alla speculazione alberghiera) conosco e trovo ospitalita' da un certo Mousa. Lo chiamo al cellulare, dice di vivere in un villaggio fuori Hebron e mi da' il numero di cellulare di Nowal, una attivista palestinese che ha il negozio nel Citta' Vecchia di Hebron. Chiamo la tipa e poco dopo, tra traffico e mercati e bancarelle e soldati armati, eccoci al suo negozio. Ci offre del te' ed invita a fare un giro per il centro della citta'. La situazione qui e' molto piu' tesa rispetto a Betlemme, la citta' ha cento trenta mila abitanti, arabi ed ebrei vivono insieme. Ma divisi. Questo perche' una quarantina di anni fa un gruppo di ebrei si e' finto turista ed ha occupato delle palazzine nel centro, rivendicandole. Nel 1994 uno di questi ebrei e' entrato armato nella moschea: una strage. Oggi la citta' e' divisa in due, gli ebrei sono circa 500, di cui la meta' soldati. L'atmosfera e' tesissima. Una famiglia palestinese ci invita a salire sul loro tetto, da dove e' visibile l'insediamento israeliano. Said, un ragazzino di sedici anni circa, mi spiega diverse cose, ci mostra la sua casa tagliata a meta' dall'insediamento, i soldati israeliani armati a cinque metri dal suo tetto, le taniche d'acque con fori di proiettile, la foto del fratellino ucciso carbonizzato da una molotov lanciata da un colono israeliano. Restiamo senza parole. Sul tetto c'e' anche un gruppo di altri stranieri, italiani, baschi, turchi, argentini. La moschea e' super vigilata dai soldati e dai metal detector: non ho voglia di entrare. Nella citta' girano degli osservatori internazionali di Human Right Watching: ne conosciamo uno, di Napoli. Tira davvero brutta aria ad Hebron, torniamo al negozio di Nowal, telefoniamo a Mousa che ci invita a casa sua, dove ci sono altri attivisti stranieri. Il villaggio si chiama Beit Ommar, dieci minuti di pulmino da Hebron, piena campagna. Appena arrivati nel villaggio osserviamo una zuffa tra palestinesi per futili motivi di traffico. Tanto per cambiare, volano pietre e donne che urlano. Appena la gente ci vede ci chiede se andiamo da Mousa e ci indica la strada. Passa un taxi, scende un tipo robusto che dice di essere il fratello di Mousa e ci invita a salire. Poco dopo, eccoci alla casa di Mousa, dove diversi ragazzi di varie nazionalita' ci danno il benvenuto. Sono William, un socialista indipendista dal Quebec; Alexa, studentessa canadese di origine italiana; Gaurav, ventisettenne indiano che fa un master a New York, tipo molto in gamba, e' stato in Palestina due mesi, parlicchia arabo ed e' informatissimo sulla situazione e le varie attivita'; Ingrid, studentessa tedesca; Yussef, fratello di Mousa; Bekha, americana di origine ebrea, moglie di Mousa; i genitori e la famiglia allargatissima di Mousa; un tipo americano che se ne andra' praticamente subito e un altro tipo americano di Chicago di origine ebrea. Una bella squadra insomma. Sono quasi tutti per un progetto ideato anni fa da Mousa e Bekha, Palestine Solidarity Project. Simile al piu' famoso International Solidarity Movement (di cui sia Mousa che Bekha erano attivisti), accoglie ed organizza attivisti palestinesi ed internazionali, per prendere parte a forme di protesta e resistenza non violenta contro l'occupazione e in sostegno dei contadini e civili palestinesi. Mousa e' uscito di galera due mesi fa. Nel villaggio vivono quasi solo contadini alle prese ogni giorno con il governo israeliano che taglia loro l'acqua e impedisce di raggiungere i campi che lavorano. Sono appena tornati da una manifestazione a Saffa, dove due attiviste straniere sono state arrestate dall'esercito israeliano.
La casa e' piena di libri, la televisione e' sempre connessa su AlJazeera, i campi pieni di frutta ed ortaggi, l'ambiente fantastico. Decidiamo di restare due notti, durante le quali parliamo di situazione palestinese, strategie di lotta, relativi progetti, politica internazionale, esperienze personali. Presento l'Italia di mafia e Berlusconi, puttane d'alto bordo e fascismo dei media. Non ne sapevano nulla. Passiamo la maggior parte del tempo a leggere. A proposito di questo, consiglio alcuni libri che mi son stati di compagnia negli ultimi giorni: "Anarchy in the Age of Dinosaurs", "Making Gender. The Politics and Erotics of Culture", "La Santa Casta della Chiesa", "Le pratiche dell'inchiesta sociale" e il bellissimo "Las venas abiertas de America Latina". La casa e' anche piena di libretti di informazione sulla cultura araba, le maniere e le abitudini di vita, come partecipare alle manifestazioni, quali sono i pericoli, cosa fare se si viene arrestati, storia e reports sulla condizione attuale della Palestina. "Il coraggio e' contagioso", "If I can't dance to it, it's not my revolution", "We support our troops when they shoot their officers" alcune delle frasi che leggo in giro. Mousa e Bekha ci parlano moltissimo di Palestina, di attivismo e del loro progetto. Bekha, da ebrea che ha sposato un palestinese, e' considerata dai soldati israeliani una "puttana traditrice". Mangiamo insieme e la sera dormiamo divisi maschi e femmine in due stanzoni. Alexa parte per una manifestazione a Gerusalemme, Ingrid e Gaurav per un film-documentario in un villaggio li' vicino. Il terzo giorno Fabio e il tipo americano di Chicago tornano ad Hebron per fare delle foto, Chiara decide di restare a casa di Mousa per un altro giorno a leggere e documentarsi, io con Ingrid, Gaurav e William ce ne andiamo a Gerusalemme est (la parte palestinese della citta') in pulmino, per partecipare ad una protesta contro lo sfratto di alcune famiglie palestinesi e l'insediamento di nuovi coloni israeliani.
Pensavo di assistere ad una manifestazione come tante altre, ma le poche ore di Gerusalemme mi hanno lasciato allibito non poco...
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