Thursday, August 13, 2009

Diario di viaggio (VII): Come costruire una gabbia e chiamarla "Pace".




"Non avrai altro Dio all'infuori di me, spesso mi hai fatto pensare; genti diverse venute dall'est, dicevano che in fondo era uguale: credevano ad un altro diverso da te, non mi hanno fatto del male, credevano ad un altro diverso da te, non mi hanno fatto del male"

Fabrizio De Andre', Il Testamento di Tito

PREMESSA: Siamo venuti in Palestina con un fine ben preciso: capirci qualcosa. Ovvero ripartire con il sacco piu' pieno di quando siamo arrivati. Capire come? Attraverso l'osservazione, attraverso la gente, le letture, attraverso il volontariato. Quello che vedo e ascolto in questi primi giorni di Palestina non e' facile da capire o da spiegare, ho una grande confusione in testa, le domande che faccio e le risposte che ottengo aumentano la confusione e producono soltanto altre domande. Di certo la situazione e' insieme estremamente complessa e complicata.

Ero all'ultimo anno di liceo quando vidi per la prima volta immagini dalla Palestina: era la seconda Intifada, settembre 2000. Vedevo bambini tirare pietre contro dei carri armati. Non ci metti molto a capire da che parte schierarti. Ho cominciato ad interessarmi e leggere di Palestina durante l'Universita'. Parlavamo di occupazione, di muri, di resistenza, di palestinesi contro israeliani, di oppressi contro oppressori. Parlavamo di Rachel Corrie, una giovane ragazza americana uccisa dalle ruspe israeliane in Palestina. L'anno scorso, mentre ero in Spagna, un'amica di Barcellona mi parla della sua esperienza con International Solidarity Movement in Palestina. Decido che e' ora di andare e, un anno dopo, eccomi qua. Per capire da vicino, per vivere, per (possibilmente) aiutare. Insieme con Chiara e Fabio, compagni di viaggio, decidiamo la strada per raggiungere la Palestina (via Egitto e Giordania) e troviamo i contatti e le organizzazioni con le quali muoverci in Israele.
A Betlemme abbiam deciso di collaborare con Holy Land Trust, un'organizzazione palestinese che lavora per la pace, accetta volontari internazionali e organizza training e tour per le zone limitrofe, al fine di mostrare le varie realta' locali ai visitatori. Lumna, una delle organizzatrici, ci propone di aggregarci ad un gruppo di giovani insegnanti catalani in tour per la Palestina. Il loro viaggio e' finanziato dalla provincia catalana e consiste nel visitare luoghi e scuole palestinesi, realizzare foto reportage e attivita' coi bambini. Ci aggreghiamo volentieri. Le giornate sono cosi' organizzate: la mattina, dalle 9 alle 13, training nella sede del Bible College, dove si discute di pace, non violenza, resistenza all'occupazione dai diversi punti di vista e gli attivisti palestinesi di Holy Land Trust (giovani e meno giovani, musulmani e non, sociologi, psicologi, insegnanti, studenti, social workers, ex detenuti delle carceri israeliani, rifugiati, etc...) tengono dei workshop (lezioni e dibattiti) sulla situazione in Palestina e sulla storia di questi posti; dopo il pranzo collettivo, ci portano in pulmino a visitare i campi profughi (a Betlemme ce ne sono tre), i villaggi occupati, il muro e altre realta'. Piu' faccio domande e meno capisco. Ma non me ne meraviglio troppo.
I campi profughi non sono formati da tendopoli, niente di simile insomma a quelli che vedete in TV relativi ai paesi africani. Sono costruzioni nei quartieri periferici di Betlemme, risalgono agli anni sessanta. Dheisheh ha 12.000 abitanti, Azza e Aida qualche migliaio. Anche questi sono pieni di bambini che giocano in strada, piccoli negozi, murales di Arafat e Che Guevara, centri delle Nazioni Unite. Il muro e' quell'orrendo mostro di cui tanto si parla nei giornali di mezzo mondo quando si parla di Palestina. Ed e' orrendo davvero. Alto il doppio del piu' celebre muro di Berlino e' coperto di scritte e murales in tutte le lingue del mondo. Trovi disegnati fiori, simboli della pace, A cerchiate, falce e martello, croci celtiche, svastiche. Infiniti gli slogans: "Berlin 1989, Palestine??", "En Madrid como en Gaza: Intifada!", "Una vittoria ottenuta con la violenza equivale ad una sconfitta", "Benvenuto Benedetto XVI", "Obama, noi aspettiamo", ... Il muro l'hanno costruito gli israeliani,ufficialmente per difendere i coloni israeliani. Cosa sono i coloni israeliani? Sono civili israeliani che vivono nei territori occupati dagli israeliani stessi, ovvero in terra palestinese, Cisgiordania (o West Bank).
Ebreo e' colui che professa la religione ebraica, l'ebraismo. Israeliano e' il colui che vive in Israele, sia esso arabo o meno, ebreo o meno. Sionista e' colui che auspica una terra di soli ebrei nel territorio chiamato Palestina. Ebreo, israeliano e sionista non sono la stessa cosa, ma esistono ebrei israeliani sionisti. La parolaccia qui e' "sionismo". Il sionismo ha cacciato via i palestinesi negli ultimi cento cinquant'anni di storia. Date un'occhiata all'immagine in alto. I verdi sono i palestinesi, i bianchi gli israeliani. Dal 1946 al 2000 il governo israeliano si e' pian piano (e a seguito di guerre provocate anche da paesi arabi aggressori) mangiato il territorio palestinese, la terra dei palestinesi. In culo alle convenzioni e agli accordi internazionali (Oslo e Madrid in primis), in culo a Rabin, Arafat e Clinton. E ora i palestinesi che ancora osano vivere in Palestina (1.500.000 circa nella Striscia di Gaza, 2.500.000 circa in Cisgiordania) vivono sotto occupazione militare e in uno stato di apartheid. Non sono piu' padroni di nulla, si definiscono "popolo senza terra", vivono con acqua ed elettricita' razionata dal governo di Israele, non hanno liberta' di movimento, non possono muoversi da una citta' ad un altra senza permesso, non posso andare all'estero senza permesso del governo d'Israele. Insomma vivono bene come bene si vive in una gabbia. Questo e' quello che gli israeliani chiamano "pace": ridurre i palestinesi in gabbia, sperando che prima o poi se ne vadano via tutti. Anche per questo l'avere quattro o cinque figli per famiglia per i palestinesi e' una forma di resistenza. Cinque milioni di palestinesi vivono come profughi all'estero, ad un milione non e' riconosciuto lo status di profugo.
1948, 1967, 1976, 1987 e 2000 sono le date chiave. "Oslo" e' una promessa tradita, "Autorita' Palestinese" un fantoccio come la Green Line, "Nakba" e' la parola che indica il sentimento di dolore dovuto all'oppressione israeliana. I palestinesi vogliono la pace ma covano inevitabilmente un sentimento di odio verso gli israeliani. Fanno resistenza, dove qui "resistere" significa "lottare per esistere": come persone, come cultura, come tradizione, come popolo legato ad una terra. La "chiave" e' il loro simbolo, indica la loro intenzione di tornare nelle terre dalle quali sono stati cacciati, nelle case che han chiuso a chiave prima di andarsene sotto la spinta dell'avanzata israeliana. Parlano di Arafat, di Fatah, di Hamas, di violenza e di non violenza, del maiale Ariel Sharon, boia dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila in Libano nel 1982 e responsabile della prima Intifada nel 1987. Vogliono l'abbattimento del muro, la fine dell'occupazione israeliana, la liberta' di movimento, sperano nella creazione di uno stato palestinese. "Due popoli, due stati" e' lo slogan che sbraitano anche i politici italiani. A me sinceramente molte cose non tornano.
Quello che fanno gli attivisti di Holy Land Trust e gli attivisti di molte altre organizzazioni palestinesi e' una educazione alla pace, nelle scuole e nei luoghi di lavoro, con attivita' di resistenza non violenta nelle zone occupate dai coloni e dai militari israeliani: partite a calcio, dimostrazioni sotto il muro, piantagione di alberi di ulivi, etc... Lo slogan e' "UN can't, we can": quello che non riescono a fare le Nazioni Unite noi riusciamo a farlo. Parlano di rivoluzione e di riformismo. I loro idoli sono Gandhi e Martin Luther King. Certo, non e' facile. C'e' sempre qualcuno (specie i bambini) che lanciano pietre, ricevendo in cambio pallottole o carcere. Per questa gente lanciare pietre non e' violenza. La pietra e' un simbolo. E simboleggia la situazione di oppressione e resistenza del popolo palestinese. E' un "non benvenuto". Non lanciano pietre per uccidere, ma per ribadire il loro disgusto all'occupazione. Per altri non e' violenza neanche imbottirsi di esplosivo e farsi saltare in aria in obiettivi militari israeliani. Non civili, ma militari. A noi italiani o catalani questi discorsi lasciano sconcertati, pace e non violenza non vanno d'accordo con pietre e kamikaze. Ma e' anche vero che noi veniamo dai banchi delle universita' europee. Non abbiamo mai vissuto occupazioni straniere ne' abbiamo fratelli o cugini uccisi dai militari israeliani. Non abbiamo speso anni nelle prigioni israeliani ne' siamo stati torturati.
Io non voglio giustificare niente e nessuno. Mi sforzo anche di non giudicare. Cerco di capire e non ci riesco. Per quel che mi ricordo io, il principio che c'e' dietro la non vi0lenza e' il fatto che la violenza porta sempre e inesorabilmente ad altra violenza, in un circolo vizioso e senza fine. Smettere di far violenza ha il fine di terminare la violenza che si fa e che si subisce. Ma se, violenza o meno, la violenza dall'altra parte non termina, allora la non violenza non ha molto senso. La non violenza porta solo ad uno status quo che e' inaccettabile per i palestinesi. Per questo alcune di queste persone giustificano le pietre o addirittura le bombe. A
Gaza, infatti, Hamas prende il massimo dei voti. Parliamo di pace, di futuro, di convivenza ma si finisce sempre col tirare fuori pietre e bombe, muri e occupazioni. Ho una grande, grossa, riassuntiva domanda, troppo semplice ed innocente per meritare una risposta: perche' non evitare le separazioni, smetterla di parlare di stati, smetterla di costruire muri e check points e fare semplicemente una cosa: convivere israeliani e arabi nella stessa terra palestinese?! Da quanto ho capito, la scelta della separazione e' un dogma per entrambi le parti, un postulato da cui iniziare il dialogo, la prima scelta da farsi, la prima scelta fatta, gia' un centinaio di anni fa. A distanza di cent'anni, non sarebbe meglio rivedere questo postulato?!?
Domani, come ogni venerdi' dal 2006, in tutta la Palestina ci saranno manifestazioni contro il muro. Domani, a Betlemme, parteciperemo anche noi.

2 Comments:

At 5:21 PM, Blogger Massaccesi Daniele said...

p.s. Io, Chiara e Fabio avremmo migliaia di foto di Egitto, Giordania e Palestina da mettere in rete, cosa che non possiamo fare perche' nessuno dei tre si e' ricordato di portare il cavo che collega la macchina fotografica al computer. Coglioni!

 
At 8:11 PM, Blogger Manuela Scebba said...

un abbraccio daniè! Palestina libera!

 

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