Diario di viaggio (I): Il Cairo e i cowboys...
Cazzo finalmente riesco a metter piede in un internet point. Ottavo giorno di strada, centinaia di chilometri macinati. "Ehi capo, come si chiama questo minchia di posto?!". Wadi Musa, mi sembra. Giordania meridionale. Una mezzoretta a piedi da Petra per capirci. Ma andiamo con ordine.
Passate ottime giornate a Macerata cosi' come a Roma, in compagnia di amici e vizi vari, ho lasciato l'Italia a Fiumicino un po' con la lacrimuccia. Tutto sommato l'Italia non e' un posto di merda, basta non leggere i giornali e gettare la televisione dalla finestra. In aeroporto becco Chiara, studentessa napoletana, compagna di viaggio. Lungo abbraccio che infastidisce la guardia all'ingresso. La nostra prima destinazione e' Il Cairo, incredibile metropoli e capitale dell'Egitto. Abbiamo un paio di indirizzi di ostelli economici segnati con penna rossa su un fogliaccio. Si riveleranno inutili: la gente non parla inglese, tantomeno capisce la nostra pronuncia delle vie. Citta' caotica come poche altre ne ho viste, estremamente viva, gente in strada e casino fino alle tre di mattina. Per fortuna (primo dogma di questo viaggio) c'e' sempre un egiziano che ha vissuto a Milano e conosce dieci parole in italiano. Cosi' come c'e' sempre un gatto nei posti dove finisco a dormire: non ho mai gradito la mia allergia ai gatti. Troviamo una cameraccia come quelle nei racconti di Bukowsky, anche troppo larga e raffinata per i miei gusti. Prezzo accettabile. La gente e' davvero gentile. Ma forse parlo cosi' solo perche' vivo in Cina, dove le buone maniere e le relazioni sociali funzionano piuttosto diversamente. Mi sento a casa. E la mia casa si chiama Mar Mediterraneo, ovvero la terra bagnata da questo mare che se potesse parlare di storie da raccontare ne avrebbe. Non mi importa cosa dica Borghezio e tutta la trafila di xenofobi italiani, io il marocchino, il libanese o il turco le sento fratelli, ci accomunano troppe cose, "calore" umano e ospitalita' in primis, cosa che in Asia orientale non hanno e non sanno cosa si perdono. Purtroppo (ma come sempre in questi casi) la gente piu' gentile e calorosa e' quella che lavora nell'industria del turismo, e vede il viaggiatore come un pollo da spennare. Con me questi sciacalli sbattono ancora male.
Le prime due giornate a Il Cairo corrono via velocemente e vedono me e Chiara sempre in strada sotto i quaranta gradi ad osservare le genti, gli indumenti, gli usi, i cammelli. A fare "people watching" insomma, e a perderci in lunghe discussioni filosofiche che terminano ore dopo con un "Bene. Che ci mangiamo per cena?!". Il viaggio prende subito un'inaspettata e piacevolissima piega spirituale. Io e Chiara siamo entrambi agnostici, con picchi di sfacciato ateismo, ma questa ragazza e' piena di quel tipo di sensibilita' e spiritualita' che ti spinge a cercare vita in una pietra abbandonata sul lato della strada. Filosofia pura. Mi mancava.
Tra giardini e musei, tra foto con bambini di strada e sorrisi della gente, le nostre prime 48 ore in attesa che anche il fratello atterri a Il Cairo se ne vanno felici felici. Oltre tutto pensavo che in un paese musulmano come l'Egitto mancassero negozi di alcolici. Sfortunatamente mi sbagliavo.
La terza notte ci spostiamo in un ostello piu' economico, sempre nella Down Town de Il Cairo. Un ostello amministrato da un simpaticissimo marpione egiziano. Un ostello che ospita tre calciatori nigeriani e una serie di internazionali viaggiatori zaino in spalla. Il marpione egiziano mi ha spiegato che ama le giapponesi perche' quando sorridono chiudono gli occhi e fotte loro il portafogli. Il marpione egiziano ha anche tentato di fottersi Chiara in tutti i modi, senza successo. Meglio e' andata ad un diciassettenne egiziano, proprietario di un negozio di cianfrusaglie: e' riuscito almeno ad aggiudicarsi un sensuale massaggio. La mattina arriva Fabio, fratello di Chiara. E' un artista, un esteta ed un fotografo. Un bravo ragazzo, forse troppo, di quelli che si fanno abbindolare dai cialtroni di strada e si fa rifilare profumi e altre inutili cazzate. L'ho soprannomiato "il venditore di tappeti". A me invece il soprannome me l'ha affibiato un tizio per strada, chiamandomi "Ehi you, cowboy!". Sara' forse per il cappello da antropologo che ho trovato in casa e gli occhiali da sole che ho gia' rotto e gettato in cestino a Taba, confine con Israele. A Chiara non abbiamo ancora trovato un soprannome. Potremmo pero' scambiare Chiara per una quarantina di cammelli o panette di ashish (le offerte certo non mancano!), ma quando concludiamo l'affare Chiara si rifiuta di essere venduta e l'acquirente ci tratta da froci perche' dice che gli uomini siamo noi e noi dovremmo decidere sulla proprieta' di una donna. Purtroppo sia io che Fabio veniamo da un paese dove le cose funzionano diversamente. E oltre tutto io sono un pessimo piazzista. Intanto pero', il viaggio si fa sempre piu' spirituale...
5 Comments:
Perche non:)
leggere l'intero blog, pretty good
imparato molto
imparato molto
necessita di verificare:)
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