Thursday, August 22, 2019

Viaggio in Colombia (XV): Bogotà. E il ritorno in Italia.


Dal piccolo aeroporto di Leticia si giunge a Bogotà in circa un'ora e mezza di volo. L'Amazzonia dal finestrino dell'aereo appare ancora più immensa e affascinante. Per quel poco che ho visto, perché ho dormito quasi per tutto il tempo.

Bogotà, capitale colombiana a 2.600 m s.l.m. e un'aerea metropolitana di quasi nove milioni di persone. L'aeroporto è tra i più moderni mai visti. Tuttavia l'atmosfera di rilassatezza e cordialità colombiana vige anche qui. Con C. e W. prendiamo un paio di bus che per soli 2.400 pesos (70 centesimi di euro circa) e mezz'ora di viaggio ci portano in centro città. Lungo il tragitto, alti palazzoni si alternano a parchi, case grigie, qualche baracca. Sembra tuttavia una città moderna ed europea. Forse più da Europa orientale. Bucarest, probabilmente. Un po' soviet, un po' murales. Migranti venezuelani nel bus a chiedere qualche moneta. Arriviamo a la Candelaria, quartiere artistico e bohémienne della città, ricco di negozietti di artigianati, bar, ristorantini, ostelli, spazi d'arte. In giro anche qualche giovane tossico e senza fissa dimora.

C. e W. se ne andranno in serata in volo per Barranquilla. Il mio viaggio con loro termina qui, ma  mi restano ancora due giorni per visitare Bogotà prima di riprendere un aereo per Roma via Francoforte. Prendo un ostello gestito da punk colombiani, più che un dormitorio un luogo di ritrovo per punk e amanti della musica hardcore. Non un luogo per dormire, ma un luogo per sfondarsi e assaggiare lo stile di vita punk. 
Ci fermiamo a mangiare in un ristorantino giapponese, poi a gironzolare per il colorato e vivissimo centro della Candelaria. Visitiamo poi il Museo di arte, ospitato in un bellissimo edificio in stile coloniale, dove sono contenute anche le opere di pittura e scultura del più famoso Fernando Botero. Ingresso gratis, visita bella lunga. E' sabato sera ma non c'è molta gente in giro. Camminiamo per il più grande e spazioso centro cittadino, per poi andare a mangiare hamburger e bere qualche birretta e un ultimo giro di rum per i bar di salsa della capitale. I giovani si vestono e atteggiano come nelle città spagnole o italiane. Catene di ristoranti e fast food, negozi di tatuaggi e sex toys. Le strade sono davvero grandi, così come i grattacieli e gli spazi. Nonostante qualche edificio fatiscente o disabitato e nonostante la massiccia presenza di vagabondi e barboni, sembra proprio una città europea dell'America Latina, simile a Buenos Aires o Santiago del Cile. Così diversa da Barranquilla o dalle altre città medie e piccole viste finora in Colombia (per non parlare dello shock culturale venendo dai Caraibi e dall'Amazzonia!). 
Mi sento un po' a casa. O meglio, sento che sto per tornare a casa.

C. e W., prima di riprendere l'aereo per Barranquilla, mi accompagnano nell'ostello punk, dove è in corso una piccola festa con musica hardcore sparata a tutta e una decina di punk in botta chimica. Nonostante il frastuono e una partita di biliardo a fianco della mia stanza, sono crollato di stanchezza nel mio lettino in una stanza condivisa. 
Il giorno dopo è una bellissima giornata di sole. I musei sono aperti e gratuiti nei festivi, così ne approfitto per rivisitare il Museo di arte e andare a vedere anche quello dell'oro. Giro poi per il centro e imbocco la Carrera 7 in direzione nord, una delle principali arterie stradali della città. Uscito dal caos umano e turistico del centro, la città appare più pulita e vivibile, addirittura più ordinata e borghese nella parte nord della città. Una piccola Svizzera andina. Poche persone, soprattutto pochi vagabondi o drogati in giro. Cammino a lungo a visitare un paio di parchi e una zona più commerciale e gastronomica. Rientro prima del tramonto in bus per il centro e torno alla Candelaria per qualche birra fuori da un bar, nel via vai costante di giovani, musicisti, artisti e vagabondi. Un piatto da provare è l'ajiaco, una specie di densa zuppa con pollo, patate e mais. Una bibita alcolica molto in voga tra adolescenti e barboni è invece la chicha, realizzata fermentando mais o riso. Altra chicca è il tè alla foglia secca di coca.

Torno in ostello e non c'è quasi nessuno. Strano. Anche se non è tardi, crollo a letto. Vengo svegliato attorno alle cinque di mattina da un via vai di persone in camera, di ritorno da un concerto punk. Alcuni sono ubriachi, altri su di giri. Accanto al mio letto si sistemano un ragazzo e una ragazza a fumare crack (che qui chiamano bazuco, lo scarto dello scarto della cocaina). Mi rimetto a dormire, ma scoppia un casino tra ragazzine punk per questioni di gelosia su chi dorme con chi. In effetti in una camerata da quattro letti siamo in una decina di persone... Vedete un po' voi! Poco dopo mi alzo, sono già le sei e mezzo di mattina e lascio il mio letto a questi giovani in botta post-concerto hardcore, per sistemarmi all'ingresso e rimettere a posto lo zaino, pronto per lasciare l'ostello e fare un ultimo giro di Bogotà. Purtroppo però piove a dirotto e attendo nell'ostello in compagnia di un punk che fa colazione con del rum di pessima qualità.

Lunedì mattina presto, giorno festivo. Nonostante la pioggerella e il freddo notevole, cammino in direzione nord-est per raggiungere la funivia che porta al monastero di Monserrate. Pochi turisti, qualche fedele cattolico. Il biglietto di andata e ritorno costa circa cinque euro e vale assolutamente la pena osservare la capitale colombiana dalla cima del monte (3.500 m s.l.m.!) dove è sito il monastero. Oltretutto, fanno il caffè più buono bevuto finora.

Tornato in città, scopro con delusione che il museo della Cinemateca è chiuso e che è possibile solo vedere i film. Non hanno neanche uno straccio di programma, che è consultabile solo on-line. Passo il resto della mattinata e del primo pomeriggio a pazzeggiare in giro e spendere gli ultimi pesos. Al tramonto prendo un bus per l'aeroporto in attesa del mio volo. Il viaggio volge al termine.

Della Colombia ricorderò tante cose, in primis questo passaggio dai Caraibi all'Amazzonia attraverso le Ande. Le comunità indigene nelle montagne, gli sciamani nella giungla. La vita lungo il fiume. I piranha. Le serate nei bar di salsa in compagnia degli amici. Le bevande zuccherate, il cibo zuccherato, lo zucchero di canna ovunque. Il cibo buono, anche se un po' ridondante. I trasporti tutto sommato efficienti, nonostante le grandi distanze. Il trattare i costi con garbo e quella sensazione che i commercianti non ti stiano inculando. La semplicità della vita, alla faccia della nostra maledetta ed inutile ricerca di sofisticazione. L'uomo-semaforo. La donna-semaforo. La differenziata fatta a cazzo. La monnezza per le strade dei Caraibi. La sensazione che fra dieci anni staranno come in Italia dieci anni fa; e la certezza che vorranno tornare indietro. La notte in cui mi hanno derubato. La cortesia e l'allegria della gente. Le persone conosciute. La strada percorsa: in spiaggia, pianura, statale, asfalto, montagna, campagna, fiume; a piedi, in barca, in autostop, in jeep, in taxi, in moto-taxi, in auto, in aereo. La natura che sovrasta. E quella "distruzione che loro chiamano sviluppo":

Cine desde los Pueblos Indígenas_Mamo Amado Villafaña 

A Francoforte i controlli aprono il culo (scusate il francesismo) e quasi rischio di perdere un'altra volta il volo di connessione. Un pretzel in aeroporto per rilassarmi. Poi l'arrivo a Fiumicino, un passaggio per Roma Termini e il fascino intramontabile del treno. Non di Trenitalia, ma del treno proprio e di tutta la gente che in esso o attorno ad esso gravita. Alla stazione in attesa del treno per Ancona, un panino con la porchetta e una Peroni gelata. Ed è subito Italia.

Ai momenti più duri,
ai momenti più belli.
Ai miei compagni di viaggio.
Alla strada!

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