Sunday, May 29, 2011

È l'ultima volta, lo giuro

Perso e disperso nel chaos che si prova quando si sta per lasciare il paese che hai vissuto per anni, ricevo una telefonata inaspettata: c'è una marchetta per te.

Una delle tante offerte di prostituzione che ho avuto negli anni trascorsi, andare a fare da modello – mascherina – comparsa – troia per qualche film e/o pubblicità. A chiamarmi è un amico italiano grazie al quale avevo lavorato anche la scorsa volta, qualche mese fa. Di cosa si tratta mi interessa poco, i dettagli ancora di meno, la cosa strana è la paga, altissima: 3000 rmb (350 euro circa) per due giorni a Shijiazhuang, capitale dello Hebei, a due ore di treno veloce da Pechino. 3000 rmb più hotel, vitto e viaggio pagati. Se è l'ultima marchetta che devo fare, chiudiamo in bellezza. Nel campus mi annoio da morire recentemente.

Cercano anche una ragazza, posso portare chi voglio. Ci penso un po'. Provo con una mia amica siciliana, ma secondo l'agente cinese è troppo scura di carnagione. Ci sarebbe anche questa tipa venezuelana che ho notato nella nostra università. Approvata. Non sapevo avesse diciannove anni. So solo che è bellissima.

Cosa dobbiamo fare di preciso lo sapremo solo una volta arrivati. Alla stazione ci raggiunge anche Dandan, altra diciannovenne, stavolta cinese. Sarà la nostra truccatrice.
Shijiazhuang è la classica metropoli cinese trafficata ed inquinata, palazzoni anni settanta e campagna ristrutturata. Un pulmino sgangherato ci raccoglie alla stazione e ci porta ad un decima di chilometri fuori città. Mega resort di villette a schiera e campi da golf verdi come i colori della Lega Nord in mezzo ad un misero paesaggio rurale della Cina settentrionale. È qui che lavoreremo per i prossimi due giorni, per girare una pubblicità del resort stesso. Va bene dai, poteva andare peggio.

Di questo tipo di lavoretti che gli studenti stranieri fanno di tanto in tanto qui in Cina ho scritto molte volte. Non so perché, ma sento di doverne scrivere anche stavolta. D'altronde il blog è mio e se qualcuno non è d'accordo basta chiuedere la pagina. Easy.

Ci si sveglia presto la mattina presto e si va a dormire la sera ugualmente presto. Le ore effettive di lavoro saranno un paio, il resto consiste nel poltronare a destra e a manca, aspettando che il regista ti chiami in scena. Per questo è importante portare con sé un buon libro e avere compagnia.
Io passo la maggior parte del tempo ad osservare gli altri lavorare. So che è fastidiosamente triste, ma è così.

Di solito la “squadra” è composta da: non importa. Stavolta la squadra era composta da: regista sui quarant'anni, pechinese, persona simpatica e di buona cultura, quasi mai presente alle riprese; due aiuto regista, pechinesi anche loro, alle prime armi di sicuro (troppo permissivi e superficiali); una cameram pechinese, zelante e probabilmente anoressica; il capo degli addetti alle luci, trentenne pechinese amante di calcio italiano, rock e viaggi; Dandan la truccatrice, che ha studiato kungfu al tempo Shaolin e si è sempre rifiutata di farmi vedere come spaccare un auto a metà con la sola forza del dito mignolo inferiore sinistro; io con la panza; Andrea, “nina sana”, la venezuelana falsa comparsa; e una ventina di operai (nessuno dei quali pechinese) tra gli addetti alle luci, gli addetti alla telecamera e quelli addetti a tutto il resto. È a loro che è dedicato questo post.

Addetti alla luci, alla telecamera e a tutto il resto sono il proletariato della produzione scenica cinematografica. Sono loro a fare il lavoro duro. Sono loro a venire dalla campagna. Sono loro quelli che sudano più di tutti gli altri. Sono loro quelli che prendono meno di tutti. Sono loro quelli che mangiano cibo in scatola sul posto di lavoro mentre regista e compagnia cantante sono al McDonald's o in qualche altro ristorante. Sono loro quelli che parlano cinese mandarino peggio di noi stranieri. Sono loro quelli che la sera ti offrono sigarette e brindisi fino a scoppiare. E termino qui la parte marxista del presente post.

Le due giornate sono passate abbastanza in fretta, lavoro non troppo stressante. Comodo riposo nei divani di queste villette super acchittate, kitch e pacchiane allo stesso tempo, una via di mezzo tra la Alice nel paese delle meraviglie e una casa coloniale tra i castelli della Loira. Una merda, insomma.
Il regista mi ha spiegato che ora tra i ricchi cinesi vanno di moda tre tipi di abitazioni: 1) modello francese 2) modello italiano 3) modello mediteranneo. Pur non avendo ben capito la differenza tra i tre (ammesso che ne esista una) ho però capito che si riferiva a questo tipo di villette fuori città, immerse nel falso verde e circondate da contadini che innaffiano le aiuole (mentre nei loro villaggi non hanno neanche l'acqua corrente e tutto il nord cinese attraversa un periodo di siccità che non si vedeva da anni), giovani guardie che sorvegliano l'area in compagnia di improbabili telecamere che ti danno la sensazione di vivere in un campo di concentramento per gente sfondata di soldi. Il tutto per la comoda cifra di cinquecento mila euro. Mentre lì fuori il salario medio di un contadino è di mille euro. All'anno. Fate voi il calcolo di quante vite devono vivere per permettersi una casa del genere.

Piacevole è stata la compagnia di Dandan e di Andrea. È bello stare in compagnia di giovane ragazze: al ristorante mangiano poco nulla, e al resto penso io. Cervello di maiale in brodo compreso.
Dandan, pur essendo nata e vissuta nello Henan, parla uno dei migliori cinesi mandarini che abbia mai sentito. Semplice e scandito, privo di accento. Da Andrea ho imparato moltissime cose.

Lista delle cose che ho appreso da Andrea:

- che Andrea in Venezuela è nome da donna. E non da uomo come in Italia.
- che i cinesi non hanno la curva nel cranio posteriore perché da piccoli dormono senza cuscino
- che “cuscino” in spagnolo si dice “almohada”
- che le donne italiane hanno le caviglie a zampa di elefante
- che la politica in Venezuela è riassuminible nella dicotomia di zoroastriana memoria pro/contro Chavez
- che il sarcosmo italiano è pietoso
- che in America Latina non è così comune viaggiare. Si sta ancora interrogando sul perché.
- che in America Latina è più comune fuggire. Solitamente verso Stati Uniti o Europa. O Cina, come nel suo caso.
- che in Venezuela se non sai ballare salsa e/o merenghe difficilmente conquisti il cuore di una ragazza. E probabilmente la sera non hai niente da fare.
- che in Venezuela, per lo meno per la classe media educata e bianca, il colonialismo non è mal visto perché ha portato la civilizzazione in quella parte del mondo. E degli indios pensa che siano dei poveri sfigati analfabeti che stanno bene dove stanno: tra le capre in montagna.

Io invece tifo Chiapas.

E con questo è tutto. Ho scritto questo post nel pulmino che da Shijiazhuang ci sta riportando a Pechino. Dietro a me siedono e fumano gli operai che hanno contributo a realizzare la pubblicità per quell'orribile resort per ricchi. Sono le cinque e quarantatre minuti di domenica pomeriggio, e questa è la strada statale G4.

3 Comments:

At 11:48 PM, Anonymous Anonymous said...

be insomma sei stato veramente una brava puttana ben pagata :D!!! noi siamo tutte sull'orlo della crisi da rientro... zoe disperata, giulia non dà notizie però l'abbiamo visto a fiumicino, io sono diventata bipolare... è questo il mal di Cina?! un abbraccio Marisa :)

 
At 2:22 AM, Blogger Massaccesi Daniele said...

dai dai, passa in fretta, poi passa in fretta anche il tempo e vi ritroverete in cina a breve. ottimismo nella vita! te lo dice un pessimista cronico :)

 
At 12:20 AM, Blogger montag said...

ciao daniele. è interessante il tuo blog e vorrei saperne di più; poi ti spiego meglio.
comunque noi ci siamo visti (tu no. IO ti ho visto) l'anno scorso in videoconferenza al teatro arlecchino.
Smile.
Marco Milozzi

 

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