Squatting Japan (5): sotto i ponti di Kyoto
PREMESSA: gli occhi con i quali ho osservato e descritto il “mio” Giappone sono quelli di un italiano che ha vissuto in Cina per molti anni. La lettura ai seguenti post dovrà necessariamente tenere conto di questo.
Altra cosa molto importante: sono rimasto davvero entusiasta di questo viaggio. Il piacere del viaggio stesso, le novità trovate in terra giapponese e la curiosità per la sua cultura hanno completamente ricaricato le batterie che da troppo tempo avevo ormai spente nella mia noiosa e stressante vita pechinese.
Kyoto è semplice. Antica capitale giapponese è famosa per la sua cultura tradizionale, i templi immersi nel verde, le donne che ancora vanno in giro “vestite da geisha” con tanto di sandali di legno. Come Pechino, è formata da un reticolato di strade che si intrecciano orizzontalmente e verticalmente. Ma, a differenza di Pechino, ha “solo” 1,5 milioni di abitanti e la città è relativamente piccola. Tanto che da ogni incrocio puoi vedere in ogni direzione le verdi montagne all'orizzonte, che circondano Kyoto. Un fiume la attraversa, il Kamo. Sotto i ponti del Kamo si vedono moltissime baracche di senza fissa dimora.
Arrivo alla stazione Sanjo (Kyoto nord-est) verso l'ora di pranzo. Da lì a piedi facilmente fino al dormitorio dell'università. E poi una lunga passeggiata, in solitaria e accompagnato da birre Sapporo da un euro e cinquanta. A Kyoto la prima sera ho preso una sbronza d'altri tempi, ma non me l'aspettavo: diciamo che non ho fatto apposta.
Pomeriggio per le viuzze ricche di templi immersi nelle verdi colline orientali, ruscelli, musei, turisti ma non troppi. In serata, estasiato dalla filosofia del momento ed inebriato dalle numerose lattine andate, mi sono fatto coraggio e ho deciso di dare un'occhiata al centro della città, area commerciale di banche, uffici e colletti bianchi. Ne ho viste di peggio. I grattacieli non sono neanche la metà di quelli di Pechino.
Telefono all'ennesima anarchica vegana giapponese di questo tour nipponico, ennesima amica di amici di amici. Ci diamo appuntamento per le nove sulle rive del Kamo. Finalmente qualcuno che parla inglese! Yuki è una ragazza di età indefinita (una trentina d'anni, credo) che fa un lavoro di merda per pagarsi l'indipendenza. Ha vissuto in California anni fa, ama Kyoto e le piace incontrare viaggiatori e attivisti internazionali. Lesbica dichiarata, è assai critica verso governo, nucleare e società tradizionale giapponese, mi ha parlato molto di un esperimento sociale che con altri compagni stanno portando avanti nell'appartamento in affitto dove vivono. Praticamente si prendono cura di una ragazzina di tredici anni che trattatano come una figlia; i genitori “naturali” l'hanno abbandonata dopo il divorzio, e ora cinque ragazzi e cinque ragazze (Yuki compresa) le fanno da papà e mamma. In questo modo, mi spiega, evitiamo di avere troppa pressione sociale, morale ed economica. E possiamo essere genitori pur essendo omosessuali. Discorso che, credo, non fa una piega.
Mentre chiacchiero allegramente con Yuki, mi scolo tre piccole bottigliette di saké, di quelle che si comprano per due lire al supermercato. Mi erano state consigliate dai barboni di Osaka. Vanno giù come l'acqua. Infatti poi quando mi sono alzato e ho salutato Yuki, mi sono reso conto di non reggermi in piedi. Chiamando a raduno tutte le mie forze e quel poco di orientamento che ho, mi sono strascinato fino all'Università di Kyoto. Entrato nel dormitorio, mi sono buttato sul primo materasso disponibile, non facendo caso ad alcuni studenti giapponesi che stavano giocando a carte. Mi alzo il mattino dopo intorno alle 6 in resacca totale, assetato e senza un grammo di forza.
Un pessimo risveglio. Vatti a fidare delle bottigliette di saké da un euro!
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