Tuesday, June 21, 2011

Squatting Japan (3): Okinawa (nonostante tutto) resiste!

PREMESSA: gli occhi con i quali ho osservato e descritto il “mio” Giappone sono quelli di un italiano che ha vissuto in Cina per molti anni. La lettura ai seguenti post dovrà necessariamente tenere conto di questo.
Altra cosa molto importante: sono rimasto davvero entusiasta di questo viaggio. Il piacere del viaggio stesso, le novità trovate in terra giapponese e la curiosità per la sua cultura hanno completamente ricaricato le batterie che da troppo tempo avevo ormai spente nella mia noiosa e stressante vita pechinese.

La fastidiosa pioggia che ci sveglia a mattinata inoltrata non rovina il nostro ennesimo tour nei quartieri bassi della ricca Osaka. Stavolta tocca al porto della città, dove tra cantieri navali e fabbriche non meglio definite, c'è un piccolo quartiere di operai immigrati dalla città di Okinawa, isole Ryukyu. Isole e genti rivendicate dai cinesi, neanche gli okinawesi (o come minchia si dice) sono ben visti dai giapponesi “puro sangue”. Gironzoliamo per il quartiere e il mercato semi deserto, mentre RJ ci spiega la storia e la condizione attuale di questa area di lavoratori migranti.
Poco distante, attraversando il delta del fiume con un battello, troviamo un parco al cui interno alcuni senza fissa dimora hanno tirato su delle baracche di legno e plastica, dove un tempo abitava anche Vecchio Punk. Una di queste baracche è anche la sede del FWF, il sindacato anarchico. Mi fanno sistemare dentro, tra scarafaggi e testi di Marx, per ripararci dalla pioggia e scolare un paio di birre. Ci raggiunge Koji, un anziano freakkettone che fuma come un bolscevico e ci racconta delle sue avventure giovanili nelle comuni di hippies in India, Nepal e Giappone meridionale. Parliamo anche di nucleare, di inquinamento e di basi americane. Finita la piacevole discussione, saluto Koji con un affettuoso e ricambiato “Yankees go home! Yankees go home!”.

Raggiungiamo poi a piedi una libreria fornitissima di materiali cartacei, audio e video sulla comunità di Okinawa ad Osaka. Seduti a terra all'interno della libreria stessa, un cinquantenne di nome Samo ci parla per più di due ore della storia di questa comunità. Anche stavolta, storie di migrazioni a partire dai primi del novecento, boom industriale, manodopera a basso costo, organizzazioni operaie, lotte per i diritti, poi le due guerre, il nuovo piano urbanistico ed una orgogliosa riscoperta culturale di questa comunità, che a partire dagli anni settanta organizza festival con danze, canti e cibi tipici delle isole Ryukyu.

In tarda serata raggiungiamo un collettivo nel centro di Osaka. Stavolta tocca a me parlare. Seduto di fronte ai compagni di avventura e ad una manciata di altri spettatori giapponesi, mi invitano a discutere di migrazione in Cina e condizione delle donne. RJ mi fa da interprete ma le difficoltà comunicative sono sempre più evidenti. Con mia grande sorpresa, scopro che queste persone sanno di Cina molto meno di quanto non sappiano i cinesi di Giappone. Mi ritrovo a dover spiegare anche le cose più basilari e che ormai anche in Italia tutti sanno, dal sistema hukou alla politica del figlio unico, dal risentimento cinese per la mancata apologia nipponica nel dopo guerra alle enormi differenze tra città e campagne. Una signora però conosceva l'etnia Mosuo, nella Cina meridionale. Peccato però pensasse che tutta la società cinese fosse matriarcale e che le donne comandassero un po' in tutta la Repubblica Popolare.
Nonostante questo, lo scambio con questi giovani e meno giovani giapponesi in una delle tanti sedi di collettivi, sindacati, organizzazioni e ONG a Osaka è stato per me particolarmente piacevole ed interessante. Usciti ormai verso mezzanotte, mi sono sentito in grande debito soprattutto nei confronti di RJ per la sua pazienza nella traduzione e con tutti gli altri per come hanno organizzato tutto il tour, ospitalità compresa. Ma, ancora una volta con grande stupore, mi sento dire che la nostra strada termina qui: passerò la notte da Vecchio So e il giorno dopo treno per Kyoto. Neanche un abbraccio, neanche l'opportunità di dire “grazie fratello!” a modo mio.

E così, l'ennesimo inchino con questi attivisti e anarco-sindacalisti della Osaka underground, un rapido scambio di e-mail sotto una pioggia battente e la promessa di un “arrivederci!”.
Seguo Vecchio So sulla via di casa, preparo lo zaino e da domani altra città, altra avventura: Kyoto!

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