Sunday, August 14, 2016

Balkans on the road, 15 anni dopo (XII): incontri di qualche tipo. In Montenegro.

Il furgone che parte da Scutari non mi porta a Podgorica ma, dopo una trafila di villaggi e mercati, alla frontiera di Hani I Hotit col Montenegro. Supero la fila di camion e mi presento armato di carta d'identita' allo sportello. Tutto liscio. Bene, eccoci di nuovo in Montenegro. Scusi, quanto manca per Podgorica? 15 chilometri, circa. Ne erano 25. Ok, basta chiedere distanze al passante di turno.

Non so ben spiegarla questa voglia di prendere e andare a piedi per strade del tutto sconosciute... forse e' fiducia nell'umanita', forse semplice voglia di stare con me stesso sotto il sole con la sola compagnia dello zaino che atrofizza le spalle e riempie di sudore. I primi tre giorni di questa seconda fase in Montenegro trascorrono benone, da segnalare una serie di incontri "particolari". Cominciamo con il primo:

- mancano una quindicina di chilometri per Podgorica, un ragazzo poco piu' grande di me mi si affianca e mi fa cenno di salire in auto. Si chiama A., etnia albanese ma cresciuto negli Stati Uniti. "Cosa fai nella vita?", gli chiedo. "Aiuto gli altri", risponde senza batter ciglio. Ok, metto la cintura di sicurezza che mi sa la discussione sara' lunga. E' un predicatore mandato "da Dio" a far ritrovare la retta via agli abitanti di questa parte del mondo. Non appartiene a nessuna religione, anzi diffida da tutte. E mi parla di chiamate divine, del diavolo che e' pubblicizzato dappertutto, della futilita' dei beni materiali, di lui che faceva un sacco di soldi nel business delle costruzioni ma che poi ha mollato tutto perche' Dio ha deciso cosi', dei terremoti e dei digiuni. Dei terremoti ho qualche esperienza, dei digiuni forse piu' di lui. Lo ascolto con rispetto, mi chiede dove voglio che mi lasci, io nel frattempo ho cambiato idea e preferisco andare a Cetinje, la vecchia capitale a 35 chilometri ad ovest di Podgorica. Mi lascia sulla strada principale dove ci sono altre persone a fare autostop. Prima di lasciarmi mi chiede se puo' fare qualcosa per me e se vuole che preghi per me. Non mi aspettavo la seconda domanda e, non sapendo cosa rispondere, l'ho lasciato benedermi. Un po' di fortuna non guasta mai in viaggio. Scherzi a parte, non ci trovo niente di male nel lasciare la routine borghese per andare nel mondo a predicare qualche cosa, pero' onestamente mi spaventa un po' quella serie di "me l'ha detto Dio"... e' come negare ogni controllo sulla propria persona e vivere per mano di chissa' chi a fare chissa' cosa. No, non mi piace affatto;

- pero' la benedizione mi ha effettivamente portato fortuna: scelgo di non fare autostop e cammino per una mezz'oretta, un camionista si ferma di sua volonta' e mi da' uno strappo e due Marlboro rosse fino a Cetinje. Chi devo ringraziare per questo: Dio, A. o il camionista?
Cetinje e' probabilmente la cittadina piu' bella vista finora, chiusa tra le montagne che portano al mare e' piena di chiese, monasteri ortodossi, verdi parchi, musei ed edifici storici da visitare, il tutto perfettamente organizzato per turisti. Atmosfera rilassata, famigliole a spasso per il corso, ragazzi che giocano a basket (altissimi i montenegrini, bellissime le montenegrine). Prima del tramonto prendo una delle vie principali che va verso i monti a nord, da li' voglio raggiungere Danilovgrad con una o due giornate di cammino. Mentre esco dalla citta' alla ricerca di un prato dove passare la notte, si avvicina un tale che inizia a parlarmi in serbo (o almeno credo). Non capisco cosa voglia, poi mi fa cenno di sedere e tira fuori una bottiglia di rakia (la grappa che in Albania chiamano "raki"). Forse cerca compagnia per bere. Va bene, ci mancherebbe, non mi tiro mai indietro di fronte ad una doverosa cortesia del genere. Si chiama S., come molti slavi da queste parti. Eta' indefinita, alto e magro, mano da lavoratore, profuma di acqua di colonia (piu' probabilmente rakia), i piccoli occhi azzurri sono visibilmente acquosi, tipico dei bevitori di una certa eta'. Conosce dieci parole di italiano e dieci d'inglese, io ne conosco cinque o sei di serbo e con queste intavoliamo una monca discussione fatta piu' che altro di sorrisi, gesti e silenzi. Osserviamo insieme il sole tramontare, steccata la bottiglia ci alziamo e procediamo ognuno per la sua strada con una sincera stretta di mano. Addio S., se vivessi nella mia stessa citta' probabilmente diventeremmo ottimi amici. "Che la via ti porti a casa!", penso mentre lo vedo barcollante scendere in paese. La notte e' mia e della luna quasi piena, mi sveglio infreddolito all'alba tra stradine di montagna diretto a Cevo;

- pensavo Cevo fosse una cittadina simile a Cetinje, invece e' solo un mucchietto di case per lo piu' disabitate. Non un alimentari, non una pompa di benzina, non un negozio, niente. Sembra Frontignano di Ussita, ma piu' piccola. Il problema e' che ho camminato per 30 chilometri sotto il sole per stradine terrose di montagna, ho finito l'acqua e sono a stomaco vuoto da quasi 24 ore. Non passa una macchina, non ci sono indicazioni, non c'e' vita e anche la mia sta per terminare. Morire a Cevo non si augura, proprio mentre stavo per stendermi a terra in attesa di un auto di passaggio, scorgo alla fine del villaggio una taverna... sono salvo! Sembra una misera osteria di quartiere, bancone pieno di alcolici, tavoli rimediati, qualche operaio a bere e fumare, l'oste e' un omone da film russo, cordialita' a palate: mai stato tanto felice di trovare un posto del genere! Divoro una fila di pane con un vassoio di prosciutto, formaggio locale e cipolla, tutto condito con della fredda birra Niksicvo. Saluto i miei salvatori e, dopo un pisolino all'ombra nel bosco, riprendo la strada per Danilovgrad. La strada (che per larghezza sembra un marciapiede di Pechino) e' sassosa e impolverata, ma e' l'unica via per scendere ad est a valle di questi monti. Non passa un'anima, il paesaggio a valle e' mozzafiato, ai miei lati frutteti di melograno, fichi, uva (tanta, tanta uva!), ciliegie e prugne, cani senza catena, qualche pascolo e caseggiato campagnolo. 17 chilometri dopo sono quasi a destinazione, quando una delle pochissime auto viste finora si ferma per darmi un passaggio: e' V., ragazzo sorridente che ha vissuto un anno a Torino a parla italiano piu' che bene. Mi racconta un po' di storia e di progressi economici in questa parte del Montenegro per poi lasciarmi sei chilometri dopo davanti a Danilovgrad. Prima di andarsene mi lascia due mele rosse che ha raccolto nel suo campo: "Sono biologiche queste, non come quelle che avete voi in Italia!". Biologiche o meno, le mele erano dolcissime. Anche Danilovgrad e', ahime', un paesotto. Passo la notte in un prato non lontano dalla stazione dei treni, la mattina seguente e puntuale come sempre mi sveglio all'alba per prendere la strada che dovrebbe condurmi al monastero di Ostrog, 23 chilometri in direzione nord;

- la temperatura segna 10 gradi alle 7 di mattina, difatti a svegliarmi alle 4.57 e' stato il freddo, nonostante abbia tutti i vestiti addosso, sacco a pelo compreso. Giuro che la prossima notte la passero' al caldo in ostello. Ma sono benissimo che non sto parlando sul serio.
Dei 23 chilometri ne faccio appena 7 o 8, perche' una macchina di grossa cilindrata si ferma per darmi un passaggio. Il ragazzo alla guida, distinto e profumato, e' P., trentenne montenegrino che ha vissuto sei anni nel Nord Italia, due dei quali passati dietro le sbarre. Mi parla (nonostante tutto) benissimo dello Stivale e mi racconta diverse cose sugli sviluppi degli ultimi anni in Montenegro. Anche lui e' diretto al monastero di Ostrog e mi porta fino alla scalinata finale che divide il parcheggio da questa incredibile architettura del XVII secolo arrampicata (chissa' come! Sembrano le grotte di Datong, nel nord della Cina) sulla roccia della montagna. Fondato da San Basilio, le cui spoglie sono qui raccolte, e' il monastero piu' importante della Chiesa ortodossa serba. P., un omone di due metri almeno, si ferma poco dopo l'ingresso per seguire la funzione religiosa, io lo ringrazio e saluto per poi fare un giro. Nonostante sia mattina presto c'e' tantissima gente, pellegrini per lo piu', buttati in ogni dove su materassini di fortuna e coperte, uomini, donne, vecchi e bambini da ogni parte del Balcani. Non credo in quello che solitamente chiamiamo "Dio" ne' seguo alcuna religione, ma credo nelle persone che credono, cioe' credo nella fede. La fede degli altri qui si sente eccome, puoi tagliarla nell'aria come un coltello nel burro. Sembra di stare a Betlemme o a Loreto. Cerando di non infastidire nessuno con il mio zaino e i pantaloni corti mi faccio spazio tra la folla per raggiungere la grotta dove riposano i resti di San Basilio. Gli ortodossi si fanno il segno della croce in continuazione (per loro prima si tocca la spalla destra, poi la sinistra) e baciano i muri del monastero, i quadri, le immagini sacre, le croci, le porte, tutto. Un religioso scambio di malattie. Terminata la fila entro, inebriato dalle litanie dei sacerdoti e dalla campane, in una minuscola e scura grotta dove un monaco dalla barba lunga e nera (sembrava Rasputin, davvero!) mi sbatte davanti un grosso crocifisso del 1200 a.C., forse nella speranza che lo baci. Io invece reagisco tipo vampiro davanti all'aglio, sbircio la cassa che contiene San Basilio e me ne esco per far posto ai fedeli, quelli veri.
Terminato il tour del monastero non mi resta che riprendere la strada, scendere i monti e dirigermi verso Niksic. Sono solo altri 25 chilometri. A piedi e sotto il sole, si intende.    

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