Come sopravvivere alla snervante attesa in aeroporto
Lasciare l’Italia mi costa inesorabilmente
sempre di più. Forse questo è un chiaro messaggio che la vita mi sta mandando.
Prima o poi reagirò a questo non troppo velato invito.
Londra, aeroporto di Stansted, ore 12.30 di
pomeriggio. Neanche il tempo di atterrare e tutto ciò che mi circonda è nebbia
e pioggia. A volte mi chiedo perché mai Dio si sia scordato di aggiungere sole,
luce e gioia a questo angolo del mondo.
La corrispondenza per Cork decolla alle 9 di
sera. Non ho nulla da fare per le prossime otto ore e mezza. Devo inventarmi
qualcosa per non morire di noia. Si può (e si deve) fare. Come? Non so. Con un
po’ di esperienza e molta fantasia immagino. Basta in realtà compiere una serie
di azioni in gran parte prive di senso. Ve ne snocciolo qui alcune.
- sgranocchiare i panini che tua madre ti ha
infilato nello zaino prima di partire;
- uscire dall’aeroporto e fumarsi due
pacchetti di sigarette morbide (sfiga ha voluto che smettessi di fumare un anno
e mezzo fa);
- ubriacarsi selvaggiamente evitando di essere
troppo molesto ai controlli (il mio fegato chiede pietà, la bottiglia può
aspettare fino al prossimo weekend, niente alcool per ora);
- spendere tempo al bagno, eseguendo una serie
di azioni più o meno utili. Tipo: fare la pipì; fare la popò; masturbarsi;
lavarsi i denti; comprare un pacco di profilattici; fissarsi allo specchio e
atteggiarsi a divo del cinema pensando “Andrei benissimo come controfigura di
Brad Pitt”; lamentarsi con la donna delle pulizie perché la carta igienica è
finita; scrivere numeri di telefono a caso col pennarello sulla porta del
cesso; fischiettare lavandosi le mano con acqua calda;
- vedere film al portatile fino al decesso
energetico dello stesso;
- ascoltare musica al lettore mp3 fino al
decesso energetico dello stesso;
- leggere il libro che porti in borsa;
- mandare messaggi dal cellulare in forma
poetica ai tuoi amici in Italia;
- telefonare a una persona alla quale vuoi
davvero bene e dirle quanto le vuoi davvero bene;
- far finta di recitare litanie buddiste in
lingue inventate. A occhi chiusi e voce alta, senza badare allo sconcerto dei
passanti;
- uscire dall’aeroporto e fare autostop. Nel
caso qualche macchina si fermi, andare con un “Where are you heading to? Ah,
no… thanks anyway man!”;
- fissare il tabellone delle partenze e
fantasticare di viaggi esotici e avventure esagerate;
- chiedere alle signore anziane se hanno
bisogno di una mano con i bagagli;
- domandare l’ora all’omino dietro al bancone
del cambio moneta;
- fermare un calabrese e chiedere cos’ha fatto
oggi la Reggina;
- chiedere agli uomini in divisa con
Kalashnikov in mano da che parte devo andare per il gate 17;
- fissare la gente cantando in testa tua i
cori della Rata. Questa azione tenetevela come ruota di scorta, verso la fine,
quando siete proprio disperati. È infatti puro masochismo. Crea una malinconia
che nessun whisky irlandese può spegnere. Specie oggi che la Rata gioca in
trasferta il derby con l’Ancona. Evitare in particolare il coro “Vorrei andare
via di qua / ma non resisto lontano da te”;
- importunare la bellissima tipa seduta
annoiata di fronte a te. Usare espressioni tipo “Ehy baby” e “You know your
eyes are brighter than stars, don’t ya?”;
- avvicinare gli Italiani con fare distratto e
ascoltare cos’hanno da dire, gli Italiani;
- avvicinare persone dalla dubbia origine
geografica ed esordire con una “Ehy guys, excuse me… just curiosity… what’s the
language you’re speaking?”;
- maledire il destino e il Ministro Fornero
per non aver fatto sì che il tuo posto di lavoro fosse a meno di 30 km dal luogo di
residenza.
Ore 20.30. Aprono il gate, posso finalmente
salire sull’aereo che mi porterà a Cork. Ho passato abbastanza brillantemente
le scorse otto ore. Non sono morto di noia e tutto sommato me la sono cavata
anche bene. Ce l’abbiamo fatta.
Si poteva (e di doveva) fare. E ce l’abbiamo
fatta. “Inno alla gioia”, Beethoven.
5 Comments:
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