Monday, November 10, 2008

Mai capito: la "faccia". 关于丢面子


"Faccia" in cinese si dice 面子 "mianzi". "Perdere la faccia" è 丢面子 "diu mianzi", che in Cina è forse la cosa peggiore che ci sia. Alla domanda se è peggio essere un ladro, una prostituta o perdere la faccia molti cinesi non sanno cosa rispondere e probabilmente si butteranno sulla terza opzione, giustificandola col fatto che uno non sceglie di perdere la faccia, ma può scegliere di rubare o di affittare il proprio corpo per soldi (e che comunque "perdere la faccia" comprende quasi sempre anche i primi due casi). Mai capito il "perdere la faccia". Una delle cinesi a cui sono più legato e a cui sarò eternamente grato per "avermi aperto gli occhi sulla Cina" (come ho scritto nella pagina dei ringraziamenti nella mia tesi di laurea specialistica) è una cinese che ha perso la faccia in giovane età, per essere divorziata e con figlio. Basta poco per perdere la faccia. E per esser costretti dalla condanna sociale a vivere di vergogna ed essere perennemente in fuga, nascosti. Del perdere la faccia non capisco innanzitutto una cosa: se dipende (ed è circoscritto) alla tua realtà familiare e di amicize/conoscenze, non basta uscire (scappare) da quella realtà per redimersi, o almeno "riacquistare" la faccia persa, riconquistare l'onore, costruirsi una nuova dignità, ambiente, realtà? Per quanto un cinese sia legato alla famiglia e al villaggio d'origine, sono incontabili i cinesi che per motivi di lavoro, studio e altro vivono a centinaia o migliaia di chilometri da famiglia, affetti, luogo d'origine. La mia domanda è dunque: quale miglior motivo (sebbene a malincuore) per scappare via se non quello di riscattarsi dall'aver perso la faccia?! Se PincoPallino ha perso la faccia a Canton, chi può saperlo in una città lontana e alienabile come Pechino (o Shanghai, o Parigi, o Buenos Aires)?!

Il problema non riguarda solo la Cina. In Sicilia forse potremmo paragonare il "diu mianzi" cinese al "perdere l'onore" siculo o al "essere un'infame" italiano. Non mi azzardo a tanto. Ma un infame di Reggio Calabria è una persona "a posto" a Torino. Un borseggiatore veneziano che si è fatto cinque anni di carcere è un cittadino pulito a Roma. Un indiano indù se ne guarda bene dal consumare alcool e carne in patria, ma non si fa troppi scrupoli a Londra, lontano dalla propria comunità. Chiedeteglielo! Non credo abbia problemi a "confessarlo" ad un uomo bianco. Un bengalese musulmano non mangia carne di maiale nel suo villaggio d'origine, ma nel nostro dormitorio a Pechino (in assenza di altri bengalesi o musulmani) non si fa tanti problemi a mangiare ravioli cinesi con verdure e carne di maiale. Una studentessa kazaka musulmana di buona famiglia ragiona col "niente sesso prima del matrimonio" a casa, ma a Pechino nei weekend non scherza quanto a birra e piselli occidentali nei bar della perdizione. Unica paranoia, che tornando a casa il futuro sposo scopra la mancata verginità la prima notte di nozze. E saran dolori a giudicare dall'ansia con la quale molte ragazze fedeli al dogma della verginità pre-matrimoniale affrontano il discorso, quando il discorso possano affrontarlo.

Non capisco. Non capisco questa propensione all'obbedienza sociale, al rispetto di norme che non appartengono alla società moderna ma solo a consuetudini morali legate alla tradizioni e ritenute sciocche praticamente da tutti. Regno dell'ipocrisia. Posso bere purché non mi vedano. Posso scopare purché non mi sentano. Posso essere ateo purché non lo scoprano. Posso "essere", purché non lo sappiano. In Italia non che le cose vadano meglio. Quanti giovani (compreso il sottoscritto forse) fuggono dalle loro piccole realtà di quartiere o di provincia per andarsi a conquistare spazi di libertà individuale e sociale nelle grandi metropoli. Dio salvi l'università! Grande scusa per fuggire dalle grette e conservatrici realtà dei paesini del Trentino, delle Marche, della Basilicata per approdare negli ambienti libertari di Bologna, Firenze, Roma. E quanti giovani italiani ho visto scappare dallo stivale per venire "a far la vita" in Cina, lontano da occhi indiscreti (???), a poter finalmente "essere" e non "apparire", per approfittare della lontanaza da casa e del potere d'acquisto per vivere di shopping, ristoranti, discoteche, lussuria. Ma è diverso: una volta che si torna a casa si racconta tutto con vanto ed emozione a amici, parenti, familiari. C'è poco da vergognarsi. Invece perdere la faccia in Cina non è solo una vergogna, è una condanna che si subisce. E idem in molti altri paesi.

Non capisco. Ammesso che si sia perso la faccia per qualcosa di imperdonabilmente grave, come aver osato di essersi concessi a libertà intollerate, per aver anche solo per un attimo provato ad "essere" anziché "apparire" sotto lo sguardo degli altri, io vedo nella fuga una facile e fattibile soluzione. Capisco molto di più una situazione del genere: una ragazza che per motivi di studio se ne vada dal suo microcosmo di un paesino del Kurdistan (regione geografica presa a caso) e arrivi nella Berlino del 2008; bene, mettiamo che questa ragazza per tutta una serie di motivi, con grande coraggio e indiscutibile conflitto interiore, si dia ad uno stile di vita tutt'altro che lecito o socialmente accettato nel suo luogo d'origine, prendendo familiarità con persone di cultura e religione diversa, indossando minigonne, andando a letto con ragazzi (o ragazze) ogni volta sempre diversi, mangiando carne di maiale o dando qualche tirata di sigaretta: di cosa dovrebbe vergognarsi stando a Berlino?! Capisco che se decidesse di tornare in Kurdistan, magari con un "amico" tedesco, dovrebbe rivedere un po' il suo modus vivendi, spiegando il suo atteggiamento e mostrando una parte di sé probabilmente inaspettata al tedesco. Questo lo capisco. Anche se non lo condivido troppo.

Vedo, in conclusione, una forte paura dell'altro, paura della società e dei suoi giudizi sulla mia persona nel fatto del "diu mianzi". Un po' ovunque, ma ovunque a modo suo. Anche le società che appaiono più "aperte e liberali" mantengono fortissime caratteristiche conservatrici che obbligano sempre e comunque l'individuo a dover scegliere la via dell'apparire e dell'avere, piuttosto che, semplicemente e naturalmente, dell'essere. C'è qui tutt'altro che da meravigliarsi: la cultura dello stare attento al giudizio altrui e della vergogna ce la insegnano sin da piccolissimi, se non in famiglia nelle scuole. E allora capisco quando Gaucci ci dice che in pubblico è sempre doveroso apparirci con una "bella fica", capisco le modelle sudamericane nei programmi di calcio italiani e il sabato di shopping per le vie del centro. A cosa servono due orologi placcati d'oro, due mogli e tre amanti, quattro auto di lusso, servitù dai paesi del terzo mondo, elicottero privato, badante romena e massaggiatrice colombiana se non per la "faccia"?! Cos'altro dovremmo fare se non apparire?!


Boh. Penso che il fine settimana me ne andrò via da qualche parte: forse a Pingyao con delle amiche italiane o forse in qualche sperduto villaggio rurale, la cosidetta "Cina vera". Ho voglia di passare la notte al freddo, bagnarmi di pioggia. E me ne frego di quello pensano gli altri. E non mi vergogno di quello che dico. Anche se probabilmente dovrei.

5 Comments:

At 4:13 PM, Anonymous Anonymous said...

Perche non:)

 
At 11:57 AM, Anonymous Anonymous said...

La ringrazio per Blog intiresny

 
At 11:59 AM, Anonymous Anonymous said...

La ringrazio per Blog intiresny

 
At 12:11 PM, Anonymous Anonymous said...

imparato molto

 
At 12:12 PM, Anonymous Anonymous said...

Si, probabilmente lo e

 

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