Diario di un prof: l’emancipazione femminile e il capitale. Di Marx.
Terminate le lezioni e arrivata la primavera non ho trovato nulla di meglio da fare che rimettermi a “fare ricerca”. Il tema scelto è sempre lo stesso: donne, emancipazione femminile, migrazione, matrimonio, amore, prostituzione. In Cina, si intende. Ho rispolverato vecchi appunti, riletto alcuni autori (autrici, più che altro), conosciuto e contattato altri ricercatori via internet.
Oggi ho letto un articolo di un italiano che vive in Cina:
“China girl”, di Furio
e quello di una giovane insegnante italiana di cinese:
“Donne cinesi tra passato e presente”, di Rita Barbieri
Ricordo di una conferenza a Pechino un paio di anni fa proprio sul tema dell’emancipazione femminile. Ospiti dell’incontro due ricche donne d’affari, una cinese e l’altra italiana. La prima era “emancipata” in quanto “moglie di”: il marito aveva fatto i soldi e lei aveva usato i suoi soldi per farsi una carriera professionale a sua volta. Proprio un bell’esempio di indipendenza e libertà! L’altra è una donna in là con gli anni, fatta da sola, ma restata sola. Non sposarsi, non avere figli o farsi una famiglia è ovviamente una scelta personale, ma se è dettata dal troppo lavoro o dalla “carriera innanzitutto” che scelta è? O meglio, dove stanno l’emancipazione e la libertà?
Ritrovo quella visione, a mio avviso superficiale e stereotipata, della donna manager come modello (non unico, spero) di donna emancipata nei due articoli di cui sopra. La donna che “si è fatta da sola” (parole di berlusconiana memoria), colletto bianco e tacchi a spillo, laurea in tasca e periodi di studio nelle più prestigiose università inglesi e americane, la donna imprenditrice (il nostro presidente era invece un presidente operaio), la donna a capo di una azienda di successo, con centinaia di dipendenti sparsi per il mondo. La donna che scrive e pubblica libri su come avere successo in amore e nel lavoro, la donna che insegna (a chi? Alle altre donne?) come “capitalizzare le proprie risorse”. Ci mancherebbe, una emancipazione senza capitalismo non è neanche pensabile. La donna indipendente (mi sembra ovvio) e libera di scegliere. Il non plus ultra dell’emancipazione femminile.
Se poi “gioventù e bellezza” sono i capitali femminili da investire allora il modello di emancipazione femminile sono la Minetti, Ruby, le veline e le puttane d’alto bordo. Se questa si chiama emancipazione allora io voglio non emanciparmi mai, restare un reietto, un disadattato, un conservatore, un uomo delle caverne. Partecipare a quello che i cinesi chiamano 落后 (antico, arretrato, ritardato, ingenuo).
Le riviste “self” e “yueji” sono, sempre a mio avviso, proprio il contrario di emancipazione femminile. Sono invece un perfetto esempio di arrivismo individualista: come fottere lo Stato e comprarsi una villa alle Hawaii alla faccia dei poveracci e delle poveracce del mio paese. Cioè, qui non si parla più di questione di genere, qui si parla di classe, di libertà di arricchirsi alle spalle degli altri. Chi può corra e corra veloce, degli altri chissenefrega. “Ecco dunque l’icona femminile della Cina contemporanea: una donna giovane, affascinante, autonoma e assolutamente autosufficiente dal punto di vista economico e referenziale”. Ripeto, sarà pure un’icona, ma è lungi da essere collegabile ai discorsi sull’emancipazione femminile. Zero questione di genere, e neanche questione nazionale, come si nota giustamente nell’articolo “I due casi simbolo di Shi Nansun e Yue Sai-Kan sono indicativi di un riconoscimento pubblico di successo e affermazione personale secondo standard che non sono prettamente cinesi, ma bensì ‘internazionali’”.
Il marxismo ci insegna che la prima emancipazione per la donna è l’indipendenza economica. E fin qui siamo d’accordo. Ma secondo me è un errore limitarci all’equazione “donna coi soldi = donna emancipata”. Altrimenti è facile asserire che la prostituta indipendente è una donna emancipata, il che non credo sia vero in un gran parte dei casi (chiedere alle prostitute).
Una prostituta in strada, un’operaia sfruttata in fabbrica, una impiegata frustrata in ufficio. Cosa hanno in comune? Tutte affittano il loro tempo (l’unica cosa che è davvero di loro proprietà e appartiene loro) in cambio di denaro, evitando di dipendere dall’uomo (padre, padrone, marito, ecc...), ma tutte loro vivono una condizione di subordinanza (se non vera e propria schiavitù) e probabilmente di infelicità e non soddisfazione (professionale, umana, ecc...) che non credo le classifichi come “donne emancipate”. E ancora meno come modello di emancipazione femminile.
“Perché imparare a usare il congiuntivo quando sono così brava ad aprire il culo?” recita una recente canzone pop italiana. Ecco, mi sembra che col passare degli anni non si progredisca in termini di emancipazione ma si cambino solamente le forme di oppressione. La chirurgia estetica, da un certo punto di vista, rientra in una di queste forme.
“All’uomo che le chiese di sposarlo rispose ‘Attenta alla vita del re. Devi rischiare la tua vita perché io rischio la mia libertà”, disse secoli fa un’anarchica francese.
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