Ricordi punk e gli attimi di dolore: quella volta che aprirono la testa a C.; e quella volta che l’aprirono a me.
Roma, primavera 2002. Matricola alla facoltà di Studi Orientali. Avevo 19 anni e uscivo con M., una punk romana appena 14enne. Per lei avevo mollato G., una ragazza della provincia di Roma, non punk ma davvero bellissima.
Con M. ci facevamo le creste colorate insieme, andavamo ai concerti punk, ci ubriacavamo in Piazza di Spagna e andavamo insieme alle manifestazioni del sabato pomeriggio. Uscivo anche coi suoi amici punk, ma non mi erano molto simpatici, tutti trentenni e poco punk per i miei gusti. Alle manifestazioni andavamo con bottiglie di birra, Lambrusco e il whisky dell’Eurospin. M. aveva un amico punk che non parlava mai, era vegano e aveva occhi di ghiaccio. Lo chiamavano C. A un corteo di protesta strappò un poster elettorale di Bertinotti nei pressi di piazza Vittorio Emanuele e quelli di Rifondazione Comunista gli spaccarono una Moretti in testa. Ricordo attimi di tensione tra alcuni punk e degli attivisti di sinistra. Ricordo C. coperto di sangue in volto, ma tranquillo a fissarmi coi suoi occhi di ghiaccio. “Stanne fuori” mi disse M. Non capii mai il perché. Smisi di frequentare M. poco dopo e mi innamorai di un’altra tipa, anche lei punk ma senza la cresta.
Un anno e mezzo dopo circa ero seduto sul piazzale di fronte alla stazione Termini di Roma. Avevo appena conosciuto due punkabbestia di Trieste, fratello e sorella. Lei si chiamava S., ed era più grande di me. Una delle ragazze più belle mai conosciute, ricordo che aveva una cresta blu, gli occhi dipinti e svariati piercing in faccia. Passai la giornata con loro a elemosinare monetine tra Campo dei Fiori e Piazza Navona. In tre avevamo tirato su più di cinquanta euro in sole tre ore. Era il giorno di San Valentino. Spendemmo tutti i soldi in superalcolici e poi andammo a un concerto punk in non ricordo quale quartiere romano. Dentro era pieno di redskins, le teste rasate di estrema sinistra che si definiscono anti-fascisti ma si comportano esattamente come loro, solo che lo fanno in nome di Stalin. Io allora andavo in giro con un chiodo (giubbetto di pelle e borchie) con una svastica disegnata. Non ero un nazista, solo mi piaceva provocare ed ero affascinato dalla semiotica. Non durai molto. Alcuni redskins mi circondarono, riempirono di botte e portarono fuori dal locale. Mi aprirono la testa con una catena, lasciandomi semi svenuto di fianco a un cassonetto dell’immondizia. Non so quanto tempo sia passato, ma poco dopo venne uno di loro e mi fece “Io ti conosco, ti vedo sempre ai cortei. Togliti il giubbetto e ti faccio rientrare nel locale”. Una volta dentro i “compagni” si scusarono per aver frainteso, io tremavo ancora e avevo la testa umida di sangue. Non rividi mai più S. né suo fratello.
Sembrano i ricordi di una vita passata. Invece sono trascorsi sì e no dieci anni. Tornassi indietro rifarei tutto, solo proverei a godermi di più gli attimi di gioia. E quelli di dolore.
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