Cina e "soft power"
«Soft Power» è un'espressione coniata dal professor Joseph Nye, docente ad Harvard, nel 1990. Nel campo delle relazioni internazionali è il modo che uno Stato o altro tipo di organizzazione politica usa per acquisire prestigio e attrazione da parte di altre entità internazionali. Il tutto tramite cultura o valori tradizionali, e non per mezzo di aspetti economici o militari che rientrano invece nel cosidetto «Hard Power».
Esempio lampante ne é la «diplomazia culturale» che Pechino porta avanti da anni con diversi paesi asiatici e africani: massicci investimenti nel campo dell'istruzione, scambio di studenti e giovani apprendisti, fondazione di scuole e istituti per lo studio della lingua cinese.
A detta di alcuni osservatori internazionali (politici e organizzazioni europee, nordamericane e indiane in primis) i neo-nati istituti Confucio vanno inquadrati proprio in quest'ottica di soft power ed esportazione di lingua e cultura cinese in giro per il mondo.
Gli istituti Confucio sono instituzioni no-profit finanziate dal governo cinese tramite l'amministrazione del HanBan (o ufficio del consiglio internazionale per la lingua cinese), un organismo che fa capo a dodici diversi ministeri e commissioni cinesi. Il primo Istituto Confucio è nato nel 2004 in Corea del Sud; nel luglio 2010 se ne contavano nel mondo più di trecento ed il governo cinese spera di arrivare a quota mille per l'anno 2020.
Finanziati e diretti da organi cinesi, questi istituti non finiranno per svolgere un'azione politica funzionale ad una «inculturazione» di matrice cinese? Sembra non essere di tale opinione l'ex preside della (ex) Facoltà di Studi Orientali dell'università «La Sapienza» a Roma, Federico Masini. Secondo un'intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore nel settembre del 2009, il docente sostiene che «A Roma io il soft power cinese non l'ho ancora visto. Da Pechino non mi hanno mai detto che cosa fare o non fare, per loro è sufficiente che contribuiamo a promuovere la lingua e la cultura cinesi. Perciò da noi si può discutere tranquillamente di Tibet e di Taiwan, temi che invece sono tabù nella Repubblica popolare». Lo stesso Masini è stato promotore per la realizzazione dell'Istutito Confucio a Roma nel settembre del 2006, primo in Italia, secondo in Europa e quarto nel mondo per ordine di tempo.
Nel suo libro «What Does China Think?» il politologo britannico Mark Leonard dubita che le democrazie occidentali siano pronte a scambiare la propria libertà per l'economia di mercato della Cina comunista. Il tè verde, Jackie Chan o Confucio, come hanno sostenuto alcuni analisti stranieri, non sono equiparabili al McDonald's, ad Hollywood o al discorso di Gettysburg. Certo, verrebbe da chiedersi quanto un attore di fama internazionale, nato e vissuto a Hong Kong, come Jackie Chan sia un'icona rappresentativa della Repubblica Popolare. O di quanto i nobili ideali di uguaglianza e libertà nel memorabile discorso di Abramo Lincoln a Gettysburg nel 1863 siano oggi vivi e risonanti tra le società occidentali.
Indubbiamente però, in un mondo globalizzato fatto di scambi e comunicazioni internazionali, migliaia di anni di civiltà cinese sono una fonte inesauribile di elementi culturali e tecnologici da «esportare» ad altri paesi. «Soft power» o meno che dir si voglia.
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