抵制日货 Primavera 2005, cronaca di una manifestazione anti-giapponese a Pechino.
Cercando file nel mio computer, mi sono imbattuto in questa pagina di diario scritta da me nel lontano 2005, mentre ero studente in Cina, la rapida cronaca di una manifestazione anti-giapponese a Pechino. "Patatona" è il soprannome che davo a Yu, una carissima amica giapponese, con la quale sono stato poi fidanzato a più riprese. Tono saccente e arrogante, provocatorio e a tratti infantile. Sì, mi ricononosco nel me 20enne alla scoperta del mondo. Mi sono limitato a modificare giusto qualche parola, qualche passaggio. Ripropongo qui sotto il contenuto del file. Magari a qualcuno farà piacere leggerlo.
Ieri Patatona era in camera e mi chiede, mostrandomi il suo cellulare, se conosco un determinato carattere cinese. Prendo allora il suo telefono e, cercando di identificare il carattere, leggo il messaggio. Il carattere non l’ ho mai visto e anche il senso della frase mi sfugge. Mi dice che un suo amico le consiglia di stare attenta in questi giorni e di evitare quartieri "a rischio" come ambasciate e simili, perché c'è in giro aria anti-giapponese. Anche il suo professore le ha detto che giorni fa alcuni manifestanti cinesi hanno preso a sassate una vetrina di una multinazionale giapponese. "Domani c'è una manifestazione contro il capitale giapponese in Cina, sono previste 20.000 persone. A noi giapponesi consigliano di non uscire dal campus universitario" mi fa. "Vieni con me?" le chiedo subito. Con gli occhioni da balena assonnata fissa il pavimento e scuote la testa. "Come fanno a sapere che sei giapponese? Se ti chiedono qualcosa rispondi che sei di Singapore" le faccio. E poi se stai al mio fianco non ti succederà niente, al massimo qualche foto con qualche strafigona cinese. Tristezza. Comunque la convinco. Patatona non ha ben capito se il picchetto in una delle tante zone commerciali di Pechino è contro l'imperialismo giapponese o per l'ennesima contesa dell'ennesima isola sfigata di tre metri quadrati, solito espediente di litigi tra i due paesi estremo orientali. Insomma alla fine andiamo.
Trovo migliaia di cinesi con megafoni, bandiere e cartelloni a gridare e far casino sotto l'Hai You Da Dianzi, un grattacielo stile Tokyo o New York che vende esclusivamente materiale tecnologico, ovvero tutto ciò che di tecnologico è stato inventato e sarà mai inventato sulla Terra. Inutile dire che la stragrande maggioranza delle etichette, marche e logo sono giapponesi. Poca polizia, molti curiosi e giornalisti. Alcuni tipi che sembrano i portavoce e gli organizzatori del picchetto stanno su una pedana improvvisata, tengono una grande bandiera rossa e gridano al megafono uno slogan a cui la gente risponde estasiata: "Dizhi rihuo!" che più o meno secondo la mia libera traduzione significa: "Boicottare i prodotti giapponesi!". Vi sono molti altri striscioni e slogan, quelli che riesco a capire dicono "Giapponesi, non siete i benvenuti", "Tornatevene a occuparvi di pesci", "Evviva l'opinione popolare cinese". Ci sono anche cartelloni che mostrano foto di pile di teschi, cinesi torturati e case bruciate, con evidente riferimento al periodo dell'occupazione giapponese in Manciuria negli anni trenta, e una scritta che recita: "Non dimentichiamo". Tolti i giornalisti sono l'unico occidentale tra i presenti. Mi guardano incuriositi e mi scattano delle foto. Alcuni spudoratamente, altri facendo finta di niente. Una ragazza mi fa una foto e scappa via. Neanche il tempo di lasciarle il mio numero di telefono. Un padre mi fa affiancare dal figlio e orgoglioso ci scatta una foto. "Thank you" mi sento dire. Altri mi ringraziano in cinese, uno in francese. Un ragazzo mi mette in mano un foglio con uno slogan troppo lungo per leggerlo e mi scatta una foto. Un giornalista mi chiede di dove sono. Anche io faccio foto qua e là e mi faccio dare un striscione con la scritta "Dizhi rihuo!".
Arriva sempre più gente, il picchetto si sposta in continuazione, sempre più megafoni, cartelloni, materiali. Tutti seduti. Tutti in piedi. Arrivano bandiere del Giappone sbarrate, altre sporche di vernice rossa, un ragazzo col cappello delle Guardie Rosse, un altro vestito grunge con la maglietta di Che Guevara. Operai, manovali sporchi di lavoro, impiegati, gente comune. Studenti ovviamente. Intellettuali forse. Recitano slogan col pugno alzato. "Dizhi rihuo!". Giornalisti stranieri prendono appunti con al fianco l'interprete cinese. Molti, moltissimi scattano foto o riprendono con le videocamere digitali. Da una parte gridano contro il capitale giapponese, dall'altra hanno in mano macchinette Toshiba, Sony, Panasonic, Fujitsu, roba da 1000 yuan l'una (100 euro circa, lo stipendio mensile medio di un cinese). Le stesse contraddizioni dei no-global ai cortei in occidente con le scarpe Converse, la felpa Adidas e in tasca il pacchetto di Philip Morris. A parte tutto ciò mi ha fatto molto piacere vedere che anche in Cina qualcuno pensa, lotta, propone. Fino a ieri pensavo che questo tipo di persone in Cina fossero in carcere o in esilio. E gran parte di loro, quelli che agli occhi del Partito sono i più "pericolosi", gli eversivi insomma, in carcere e in esilio effettivamente ci sono.
Patatona in tutto ciò non ha aperto bocca, sembrava triste e delusa degli slogan anti imperialismo lanciati dai manifestanti che facilmente potevano mascherarsi di stupida xenofobia o rancori del passato. Abbiam scambiato solo un paio di parole in inglese al posto del cinese, per non svelare il suo forte accento giapponese. Sulla strada del ritorno le ho spiegato come la pensavo io su questo tipo di cose; lei mi ha solo chiesto perché quella gente ce l’ ha tanto con i giapponesi.
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