Spasmi Banarsi: lettera di un amico che vive a Varanasi, India.
Caro Professore,
è bello ricevere delle sue. Sto bene, grazie. Sono
ancora a Banaras per via della cancellazione dei voli e del blocco totale dei
collegamenti, aerei e via terra, ma in contatto continuo con l'Ambasciata di
Delhi che si è dimostrata collaborativa nel cercare il modo migliore per farci
rientrare in Italia. Al tempo stesso credo che questa congiuntura ci offra
molti spunti di riflessione e che lo stare sul campo possa apportare un contributo
significativo sia all’attuale ricerca che ad eventuali lavori futuri. Più in
generale resterà una esperienza di vita memorabile. Sta a noi, ora, trovare le
chiavi di lettura e le griglie interpretative da cui procedere all'analisi del
processi socio-culturali in corso, tanto in Asia quanto in Europa. Come dicevo
alla Prof.ssa Matta stiamo forse espiando il karma coloniale del passato e
oggi, nell'immaginario indiano rappresentiamo (parlo al plurale facendo
riferimento alla categoria del ‘angrej’) lo stereotipo dell'altro, del diverso,
mi spingo a dire dell'intoccabile.
A proposito delle dinamiche osservabili nel quotidiano
(ad esempio il dirompente distanziamento sociale) sono in atto dei processi di
inversione che offrono spunti analitici molto interessanti. E' noto che una
delle prime cose che incorporiamo una volta arrivati in India è quella totale
mancanza di distanza fisica tra individui, quello scioglimento dei confini
micro sociali che in occidente, in genere, rassicurano, definiscono e
proteggono quell’egotico senso dell’Io e la sfera di azione ad esso interconnessa.
Qui l'individualità del singolo sembra essere assorbita lentamente nel caldo
abbraccio, a volte scottante, della dimensione collettiva, metafora del Sé che
si riconcilia con l'Assoluto. Scompariamo per le strade, nei metrò, negli
autobus e nei risciò condivisi, o mentre restiamo in attesa, al tempo stesso impalpabile
e caotica, ai negozi di chai. Lo
‘stare’ in India riabilita quella sensazione di corpo sociale condiviso, in
prima battuta tanto estraneo quanto poi affascinante nel generare una nuova
disposizione dell’animo e risvegliare un’attenzione speciale per i più
vulnerabili, in quanto parte viva, multiforme ed essenziale di quell’organismo
che nonostante tutte le difficoltà, ostenta salute e vitalità. Ad oggi,
tuttavia, si assiste ad un netto ribaltamento di tale visione: negli occhi
della gente comune personifichiamo il virus in quanto potenziali vettori di
contagio. Adulti e bambini ci richiamano all’attenzione per le strade semi
deserte urlando 'Corona ji' , con quel tocco di ironia dissacrante che a
Banaras, per fortuna, non manca mai. Di questi tempi, l'onorifico
‘ji’ è particella grammaticale più che mai rara, soprattutto nei confronti
del bianco, dello straniero, del videshi.
Annunciano così la nostra presenza all’interno della sfera pubblica, ma ce lo
ricordano anche mentre passeggiamo nell’ampio cortile di casa che spetta ai
privilegiati, semmai ci fossimo dimenticati per un istante la tonalità della
nostra pigmentazione e la nostra provenienza. Dai terrazzi chiassosi e
affollati di persone abituate a vivere in spazi bui e stretti, in un’atmosfera
avvolta da un silenzio magico, interrotto a tratti dalle grida dei venditori
ambulanti di verdure, si odono gli ossequiosi saluti 'Dekh, Corona aa
gayia hai' (Guarda, è arrivato il Corona) e così via verso forme
colloquiali più volgari, fino ad arrivare all'insulto più gettonato del momento,
il 'Sala Corona, teri…’. (‘Sto scemo, quella di tua..). Povere madri e sorelle!
Sempre sulla bocca di tutti anche in tempo di epidemia. Nulla di nuovo sotto il
sole di fine marzo. La Ganga scorre perenne. Dea inintaccata da
qualsivoglia evento e sciagura universale. Sgorgata dalla chioma di Shiva,
calma e placida, ha ritrovato in questi giorni di lockdown un colore naturale
che invita anche i più scettici ad immergersi nelle sue acque sacre. “Farsi un
bagno nella Ganga? Ma sei matto? Sarà piena di batteri”, mi ammoniscono spesso
gli amici dall’Italia. La paura del contagio si trasfigura invisibile attraverso
corpi sottili, umani e divini, sfere micro e macrocosmiche, creando tuttavia distanze
ben percettibili ai sensi.
E i più deboli, gli anticorpi di questo organismo
ribaltato, indispensabili ai sensi ora più che mai, dove sono andati a finire?
Non si vedono più nei vicoli di Banaras, sulle strade e sui ghat. Saranno mica
fuggiti verso una società sana, aperta e resiliente? Saranno loro a
rappresentare la sanità (quella mentale, non il sistema sanitario), in giro
senza mascherine, precauzioni e incuranti del rischio a cui vanno incontro?
Avranno mica riscoperto quell’anand van,
quella foresta di beatitudine con cui alcuni Banarsi ricordano nostalgici i
toponimi del passato? Ieri mattina, di ritorno dalla passeggiata rituale della
spesa al mercato di verdure di Assi, ho incontrato un senzatetto con cui tempo
fa scambiai due chiacchiere davanti a un falò improvvisato in una sera d’inverno.
E’ stata una visione restauratrice, un miraggio redentore, refrigerio puro in
queste lunghe giornate di fine marzo. Si aggirava intorno casa con un pacchetto
di pane a cassetta già affettato e qualche anacardo nella mano destra,
probabilmente donatigli dai pochi negozianti rimasti aperti. Teneva la sinistra
poggiata su un muro di mattoni rossi, cosparsi in cima di cacca di mucca ancora
non propriamente essiccata. Di lì a poco sarebbe diventata anch’essa antisettica.
La mucca legata al palo osserva con sospetto una piccola moschea bianca e verde
che echeggia il canto del muezzin almeno cinque volte al giorno, ricordandole di
essere in un paese abitato da milioni di musulmani, comunità vulnerabile di
questi tempi. Il senzatetto è dritto su un piede, ringrazia con un cenno del
viso rivolto a est il Sole, immagino. Incontro il suo sguardo. Lui il mio.
Sorride. Mi irradia di luce. Poi si volta, ringrazia persino la moschea e scompare
in un baleno lasciando dietro di lui quel sorriso penetrante.
Lo accolgo dentro di me in un processo di
introiezione, così come spesso accade con le narrazioni dei media per chi non
rispetta quel ‘distanziamento sociale’ da ciò che lo circonda. Le pratiche
rappresentative del fenomeno stanno trovando sempre più legittimazione
all'interno dell'opinione pubblica e sono tendenzialmente incanalate su binari
già noti, tra i quali emerge quello del contagio, ossia del male sociale come
effetto nefasto proveniente dal di fuori. In Italia erano la Cina e cinesi, in
India sono la Cina, l'Europa e, aimè l'Italia e gli italiani. Si sa che i cinesi
in India non hanno mai goduto di una buona reputazione. Il dispregiativo
‘cinki’ è infatti riservato alle popolazioni del nord-est del sub-continente
indiano, spesso vittime di pogrom da parte dei gruppi militanti del
nazionalismo ultrahindu. In questo momento nemmeno i bianchi suscitano simpatia
e stima, anzi aggiungendo una ‘g’ e rovesciando per un istante il paradigma della
bianchezza-purità, non sarebbe scandaloso parlare di sti(g)ma. Le pratiche
discorsive, a livello retorico, stanno infondendo grandi ondate di calore
all’interno dei discorsi etno-nazionalisti e paventano la via verso l'inasprimento
dei dispositivi di sicurezza e la protezione dei confini, interni ed esterni. Chiusura
delle frontiere e nazionalismo insomma. L’India sembra seguire l’esempio di
Israele, dopo aver comprato di recente un ingente quantitativo di armamenti
leggeri piuttosto che investire le proprie risorse in ambito medico-sanitario.
Per quanto riguarda invece i provvedimenti
amministrativi e le misure di contenimento per arginare l'epidemia, ritengo esse
abbiano del potenziale preoccupante per future elaborazioni di natura politica.
Come altrove, parallelamente alle continue evoluzioni del quadro normativo, sta
germinando infatti un nuovo linguaggio, si rinforzano le categorie semantiche
di chut e achut, puro e impuro, pap
e punya, peccati e meriti, concetti tanto
cari alle teorie dell’hindu dharm così
come a qualche retto Pandit Banarsi che non perde occasione di puntare il dito
contro l’Islam e l’Occidente. Si intonano mantra vedici rivistati in via
eccezionale per l’emergenza. La parola Corona scalza con prepotenza vetusti
malanni. Cominciano a esser citati testi sacri e fonti puraniche circa la
premonizione di questa sciagura e l’attestazione del termine Corona, ormai onnipervasivo,
di cui tuttavia si ignora il significato etimologico. Ovviamente era stato tutto
predetto sin dall’alba dei tempi, dagli antichi veggenti. Si sa che le fonti
sacre non sbagliano mai. E ora? La prossima mossa sarà mica quella di trovare
espedienti per liberarsi dello straniero che, seppur asintomatico, come nel
caso di chi scrive, è pur sempre uno scomodo vicino di casa, potenzialmente
infetto? Si chiama la polizia al numero d’emergenza, si allerta la proprietaria
circa un colpo di tosse sospetto avvertito verso le ore cinque dello storico
giorno del ‘janta carfew’, corrispettivo indiano del #tuttiacasa. Questo
coprifuoco di portata enciclopedica è stato proclamato dal primo ministro
Narendra Modi domenica 22 marzo in un discorso alla nazione. Squilla il
cellulare. “XXX, tutto bene? Mi hanno appena detto che sei stato
contagiato!”. Incredulità? Sangue al cervello? Ma no, trascendenza. Da noi in
Italia, in questo momento di allerta sociale e di sanzioni amministrative, ci
sarebbero gli estremi per una denuncia per procurato allarme, qui il tutto
finisce in grandi risate. Il nuovo mantra è “Aum shanti, Corona ji, shanti”. E
allora facciamo finta che anche questo episodio in realtà non abbia necessità
di esistere. Del resto fa parte anch’esso del moh-maya, ossia, tutto ciò che non è, alla fine finisce per svelare
ciò che davvero è. Lo ripete serafico Hari Das Tyagi ji, rinunciante ultrasettantenne
dell’ordine dei Ramanandi, il cui invito puntuale, ogni mattina, mi proietta
mentalmente ad infrangere le norme del lockdown per raggiungerlo nel suo ashram a due passi dal sangam, l’unione dei fiumi sacri Varuna
e Ganga. Posto davvero speciale ma troppo distante rispetto al luogo in cui mi
trovo ora. Poi penso “C’è sempre la Ganga”, la Madre che scorre e protegge dai
pericoli e dalle insidie. Faccio un giro di telefonate ai miei amici barcaioli
di Banaras. Niente. Anche loro preferiscono non rischiare o forse hanno
semplicemente paura di traghettare un videshi.
Il prezzo da pagare potrebbe essere esagerato e dall’esito incerto. Percepisco
al tempo stesso una grande vicinanza spirituale da parte delle persone che
conosco da tempo, dai vicini musulmani che hanno smesso di sfornare tandoori roti a tutte le ore, dai sadhu e dagli aghori che hanno
rinunciato da tempo all’ego, ai beni mondani, all’affermazione sociale e di
certo all’assistenza medica del sistema sanitario indiano. Alcuni di essi sono
convinti che in fin dei conti il Corona non è altro che la personificazione del
Kali Yuga, di un’epoca oscura che
dura oramai da secoli e che terminerà chissà quando. Ci si cura colla
respirazione e con anni di pratiche nemmeno troppo austere, stando alle loro
testimonianze. Il controllo del respiro, questione di vita o di morte. Del
resto i polmoni servono a quello. Da fare in auto isolamento, sì, magari in una
grotta scavata nella roccia, magari in camera a casa tua, in unione col Divino
che è in noi, uomini e donne, nessuno escluso. Noi esseri umani siamo tutti
espressione della Realtà Suprema in fondo. Sintetizzando in breve il Vedanta, ‘conosci
te stesso, conosci l’Assoluto’. Rudranath, un amico Aghori con legami nell’ordine
dei Nath, tossendo a più riprese ama ricordare
a chi non lo sapesse che è necessario morire dentro, bruciare il Sé,
l’attaccamento, le passioni, le paure, i condizionamenti, le proiezioni e le rappresentazioni
fasulle. La via da seguire? Facile dice lui, ardere come i cadaveri del campo
crematorio di Manikarnika, lo shamshan, la sintesi della vita e della
morte per eccellenza, più che mai calzante e terapeutica in questo momento di
crisi e smarrimento. Quale miglior monito per la sospirata ripartenza? Ad
aprile, a maggio? Perché non da ora?
3 Comments:
Va beh Daniele ma che studenti hai????? Molto molto bella questa testimonianza/riflessione! Wow
Non è un mio studente, ma un mio amico.
Wow, interessante! Un saluto, ti.invidio!
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