Saturday, March 07, 2020

Coronavirus? Scappo sui monti, come nel '43.


Me chiudi le scole – e te lo dico con un filo di dialetto maceratese – me chiudi le scole, cara Ministra, e lo capisco. Davvero. La paura del contagio, gli starnuti, due linee di febbre, la polmonite, l’epidemia galoppante, la pandemia dietro l’angolo, il virus cinese, la peste con gli occhi a mandorla, “a Citanò ce sta la SARS” e via dicendo. Il momento è delicato e lo capisco. Me chiudi le scole e lo capisco, signora Ministra. Davvero. Però, cara Ministra, a me me chiudi le scole è come se me spari su le ginocchia. Ce rimango male, signora Ministra. Me manca l’alunni e l’alunne. Tutti e tutte. Anche quella che mi ha fatto incazzare in gita scolastica. Anche quei due a cui ho messo una nota qualche settimana fa. Anche loro. Anzi, soprattutto loro. E allora, contro la malinconia da chiusura della scuola e in pieno spirito di resilienza io sai che faccio, Ministra? Scappo sui monti. Come il gruppo di giovani nel Decamerone. Come i partigiani nel ’43.

Il ritiro spirituale. Nel paese natale di mia nonna, entroterra maceratese pesante. Mezz’ora di macchina, 350 metri di dislivello, venti gradi di meno. Non c’è la neve neanche qui, ma sembra lo stesso inverno. Arrivo che c’è la nebbia, qualche luce a fendere l’oscurità pedemontana. Faccio girare le chiavi nel chiavistello, sembra di entrare in un castello del nono secolo d.C. L’odore è sempre quello. Di chiuso, certo, ma anche qualcos’altro. Qualcosa di caratteristico, tipico, unico. Ci sono cresciuto, con questo odore. Lo sento qui e basta, in nessun’altra parte al mondo. E di paesi, sì, ho avuto la fortuna di girarne tanti. Accendo la luce, i termosifoni. Le foto dei parenti, le foto di me bambino. Il bagno con le piastrelle blu mare. La credenza, in sala, che odora sempre di mistrà. Il posacenere, smeraldo, che era sul tavolo anche quando, una quindicina d’anni fa, vissi qui per un mese buono. E fumavo. E suonavo la chitarra. E andavo per vigne a raccogliere l’uva.  
Compro del pane nel piccolo chiosco sotto casa. Ascolto la radio. Esco a fare due passi e bere umidità. “Il silenzio non è solitudine”, avevo sentire dire in un documentario da una terremotata marchigiana. Beh, dipende. Le mura medievali, l’omaggio di Theodor Mommsen, la strada in salita e i tanti ricordi: che da giovani di stronzate se ne combinano tante. 
Il bar centrale, un’istituzione senza tempo, baluardo della civiltà occidentale. Altro che le radici cristiane! Il caffè corretto. Caro forestiero, capire tu non puoi. Il giornale al bancone, poco prima dell’ora di cena. Poi la piazza. Questo era il paese delle cento chiese. Più chiese che abitanti. Il terremoto le ha chiuse tutte. Ne hanno costruita una di plastica in un parco giochi del centro. Sembra una di quelle chiese americane costruite dieci anni fa. Ma è meglio di niente. L’età media qui è 92 anni. Gli anziani, si sa, credono nella narrazione cattolica perché ai loro tempi si educava così. Da agnostico anticlericale riconosco il potere aggregativo della religione. Gli alberi già in fiore. Sul territorio. Sul rapporto col territorio. Sul rapporto con l’eredità architettonica del territorio. Su queste mura da leccare. Su queste colline da meditare. Sull’ansia da virus. Su questo silenzio che non sempre non è solitudine.
L’umidità mi marca stretta, mi protegge dal coronavirus e mi scorta a casa.
Il divano, un libro, le coperte. Giornate di resistenza. Come nel ’43. 

1 Comments:

At 6:43 PM, Anonymous Anonymous said...

Dani ma dove sei? Se ti va possiamo sentirci e vederci così ci organizziamo con Argo
Marta

 

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