Ai senza fissa dimora.
L'area cittadina che va dalla Stazione Termini di Roma a Piazza Vittorio Emanuele è parte del rione che si chiama Esquilino, zona multietnica e di passaggio per eccellenza. Qui ho vissuto buona parte dei miei tre anni romani. Qui ho imparato tantissimo. Qui ho vissuto tantissimo.
Quindici anni fa era tutto un po' diverso. Meno polizia, meno luci, meno migranti, meno capitalismo, meno tecnologia, meno postmodernità.
L'Esquilino è una delle realtà sociali più belle e ricche che abbiamo nello Stivale. Intendiamoci: non tornerei a vivere a Roma neanche per tutte le birre del mondo, ma l'altro giorno, mentre all'Esquilino, il cuore batteva forte. Maledetta nostalgia, maledetto romanticismo. Erano i ricordi. Io ero a Roma come studente di lingua e cultura cinese, in realtà facevo molte attività, mi incuriosivo di tutto, ero attivo in diverse realtà, stavo sempre in giro tra aule universitarie, circoli, cinema, teatri, centri sociali, piazze, stazioni, marciapiedi. A vent'anni puoi permetterti di dormire tre o quattro ore per notte, poi recuperi in bus o in treno. "Dormirò quando sarò morto", pensavo.
In fondo al lato sinistro della Stazione Termini, dopo la lunga fila di sbandati, alcolisti, transessuali, prostitute ed eroinomani, c'era la mensa della Caritas. Lì ho fatto volontariato per alcuni mesi. Ho imparato tanto. Qualche parola di romeno, qualche proverbio in siciliano. Lì ho imparato che, come già qualcuno ha fatto notare, essere da una parte o dall'altra del bancone alimentare è solo un fatto di casualità. Oggi sei con la retina in testa a versare zuppa per i poveracci, domani sei dall'altra parte con la barba lunga a consumare il pasto caldo che qualche volontario ti ha passato. Non c'è merito, è casualità.
Poi sono arrivate le primavere arabe e l'emergenza migranti. Non avevo mai visto tanto migranti a Roma quando lì vivevo da studente. Oggi forse più che mai i senza fissa dimora di ogni etnia, lingua e colore sono lì di fianco alla Stazione Termini. Verso le nove di sera i volontari dell'Ordine di Malta portano loro coperte e pasti caldi, una pacca sulle spalle, qualche parola di conforto. Umanità a fottere. Dall'altro lato della stazione i negozi dei bengalesi, i bar dei cinesi, gli ostelli dei nigeriani, i tossici romani, le prostitute moldave, gli ubriaconi ucraini. L'internazionale alcolista e le frustrazioni degli uomini in divisa. Quelle blu con paletta rossa e quelle mimetiche dell'esercito con l'AK47 a penzoloni. I migranti sopravvissuti all'inferno del Mediterraneo ad affrontare l'inferno delle strade italiane e dell'indifferenza della loro gente. Un negro che dà del negro ad un altro negro che risponde simpaticamente con "ciao, bianco!". L'eroina, immortale presenza tra questi marciapiedi, a ricordarci delle infinite forme di nichilismo e rassegnazione. Le strade luride, i cartoni di vino accanto ai cartoni lasciati dai negozi e utilizzati come materasso, le coperte logore, la notte che prova a nascondere come può, tanto domani è un altro giorno e almeno stasera non sembra neanche fare troppo freddo.
I barboni che parlano da soli sembrano essere gli unici ad aver qualcosa da dire.
I senza fissa dimora. Alla dimora fissa, ragazzo mio, non credere mai.
Quindici anni fa era tutto un po' diverso. Meno polizia, meno luci, meno migranti, meno capitalismo, meno tecnologia, meno postmodernità.
L'Esquilino è una delle realtà sociali più belle e ricche che abbiamo nello Stivale. Intendiamoci: non tornerei a vivere a Roma neanche per tutte le birre del mondo, ma l'altro giorno, mentre all'Esquilino, il cuore batteva forte. Maledetta nostalgia, maledetto romanticismo. Erano i ricordi. Io ero a Roma come studente di lingua e cultura cinese, in realtà facevo molte attività, mi incuriosivo di tutto, ero attivo in diverse realtà, stavo sempre in giro tra aule universitarie, circoli, cinema, teatri, centri sociali, piazze, stazioni, marciapiedi. A vent'anni puoi permetterti di dormire tre o quattro ore per notte, poi recuperi in bus o in treno. "Dormirò quando sarò morto", pensavo.
In fondo al lato sinistro della Stazione Termini, dopo la lunga fila di sbandati, alcolisti, transessuali, prostitute ed eroinomani, c'era la mensa della Caritas. Lì ho fatto volontariato per alcuni mesi. Ho imparato tanto. Qualche parola di romeno, qualche proverbio in siciliano. Lì ho imparato che, come già qualcuno ha fatto notare, essere da una parte o dall'altra del bancone alimentare è solo un fatto di casualità. Oggi sei con la retina in testa a versare zuppa per i poveracci, domani sei dall'altra parte con la barba lunga a consumare il pasto caldo che qualche volontario ti ha passato. Non c'è merito, è casualità.
Poi sono arrivate le primavere arabe e l'emergenza migranti. Non avevo mai visto tanto migranti a Roma quando lì vivevo da studente. Oggi forse più che mai i senza fissa dimora di ogni etnia, lingua e colore sono lì di fianco alla Stazione Termini. Verso le nove di sera i volontari dell'Ordine di Malta portano loro coperte e pasti caldi, una pacca sulle spalle, qualche parola di conforto. Umanità a fottere. Dall'altro lato della stazione i negozi dei bengalesi, i bar dei cinesi, gli ostelli dei nigeriani, i tossici romani, le prostitute moldave, gli ubriaconi ucraini. L'internazionale alcolista e le frustrazioni degli uomini in divisa. Quelle blu con paletta rossa e quelle mimetiche dell'esercito con l'AK47 a penzoloni. I migranti sopravvissuti all'inferno del Mediterraneo ad affrontare l'inferno delle strade italiane e dell'indifferenza della loro gente. Un negro che dà del negro ad un altro negro che risponde simpaticamente con "ciao, bianco!". L'eroina, immortale presenza tra questi marciapiedi, a ricordarci delle infinite forme di nichilismo e rassegnazione. Le strade luride, i cartoni di vino accanto ai cartoni lasciati dai negozi e utilizzati come materasso, le coperte logore, la notte che prova a nascondere come può, tanto domani è un altro giorno e almeno stasera non sembra neanche fare troppo freddo.
I barboni che parlano da soli sembrano essere gli unici ad aver qualcosa da dire.
I senza fissa dimora. Alla dimora fissa, ragazzo mio, non credere mai.
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