Wednesday, September 25, 2013

Considerazioni sul fare interpretariato in Italia

Durante il mio lungo periodo nella Repubblica Popolare Cinese mi è capitato spesso di fare l'interprete. Presso le fiere commerciali, come semplice accompagnatore di uomini d'affari in giro per Pechino, come aiutante-mediatore per professionisti italiani e così via. Insomma, di tutto pur di arrotondare la misera borsa di studio che mi passava il governo cinese (i vizi costano!). Per quel che mi riguarda, è stata un'esperienza abbastanza positiva, fondamentalmente per tre motivi: 1) migliori tantissimo e velocemente il tuo cinese parlato 2) conosci un sacco di persone interessanti, con le quali potenzialmente collaborare in futuro 3) è ben pagato. Ovviamente ci sono anche dei lati negativi: 1) conosci anche un sacco di inutili teste di cazzo arroganti e maleducate come difficilmente ne trovi altrove 2) è un lavoro assai stressante, dove devi vestire come un pinguino e atteggiarti a esperto di transazioni commerciali.

Parliamoci chiaro: io non sono un interprete. Non ho studiato da interprete, non ho certificati o diplomi per fare l'interprete, non sono iscritto a nessun albo o ordine di interpreti, non ho mai desiderato diventare un interprete, non vorrei fare di questo il mestiere della mia vita. Semplicemente parlo il cinese o l'inglese abbastanza bene da poter far comunicare due uomini d'affari di diversa nazionalità che non conoscono l'uno la lingua dell'altro. Me la cavo abbastanza bene come accompagnatore, guida e nelle interpretazioni "b2b" (cioè "business to business", vale a dire una comunicazione tra due businessmen). Me la caverei meno bene in una traduzione simultanea o davanti ad una platea di persone durante un convegno. Non sono un vero interprete, appunto.

In Italia invece non mi era mai capitato di fare l'interprete. Fino a due giorni fa. Ho accettato di buon grado perché la paga era eccellente (non conoscevo le tariffe italiane, ma sono il doppio o il triplo di quelle che conoscevo io in Cina fino a 3-4 anni fa) e soprattutto per curiosità. Curiosità di conoscere il mondo dell'interpretariato cinese-italiano qui nello Stivale, e soprattutto curiosità di conoscere i cinesi che vengono in Italia per affari. Considerando poi che la due giorni di interpretariato "b2b" è avvenuta nelle mie zone (nel maceratese e nell'anconetano) e in compagnia di alcuni conoscenti di nuova e vecchia data, la cosa è stata estremamente piacevole. Oltre tutto ho anche avuto la fortuna (rara nel mondo dell'interpretariato) di avere come cliente una simpatica signora cinese di mezz'età, una persona aperta di vedute e amante di arte e cultura. Non il solito stronzo che tratta gli altri come animali e vorrebbe solo risparmiare quei dieci sesterzi ad ogni operazione commerciale.

Avrei molto da dire (e criticare, si intende!) su questi due giorni di lavoro, sull'organizzazione e tutto il resto, ma vi risparmio volentieri l'antifona, anche perché per me sono state ore assai piacevoli. Su un'altra cosa vorrei invece porre enfasi e qui condividere:

a fare l'interprete cinese-italiano in Cina e poi in Italia, ti rendi conto che in generale quello che dicono/pensano i "buyers" (i compratori, ovvero i businessmen in visita) cinesi in Italia non è molto diverso da quello che dicevano/pensavano i buyers italiani in Cina. Allo stesso modo, i commenti e le voci degli operatori (cioè dei businessmen locali, le aziende che espongono la merce da vendere) italiani qui nelle Marche non sono diversi da quelli dei cinesi a Pechino.

Tutto ciò mi porta ancora una volta alla banale conclusione che, anche senza scomodare Marx, il mondo non si divide in bianchi e neri (cinesi e italiani, o asiatici e europei) ma secondo classe sociali, status, potere. Specialmente oggi che viviamo i risultati della globalizzazione, della riproduzione di modelli di sviluppo economico, delle migrazioni, del capitale e della finanza globale, un rampante giovanotto della neo-emergente classe media cinese non sarà molto diverso da uno di nazionalità brasiliana o indonesiana. Così come la realtà di un immigrato somalo nelle periferie di Goteborg non sarà tanto distante da quella di un immigrato messicano nei bassi fondi di Houston.

Io, ad esempio, che ho vissuto per molti anni all'estero da "espatriato" (o, meglio, "emigrato/immigrato"), mi sento molto più vicino e identifico meglio con un immigrato cinese o romeno o senegalese in Italia che non con un italiano del posto che non ha mai viaggiato e che si lamenta degli immigrati perché rubano il lavoro (i vecchi stereotipi durissimi a morire), perché mangiano con le bacchette o perché pregano un dio diverso dal loro.

Insomma, c'è sempre da imparare... anche solo da un'ora di interpretariato.

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