Zappa e grappa: cinque giorni in un villaggio cinese di contadini
Insomma, morale della favola, il mio amico cinese è stato di parola: ha voluto che vedessi e vivessi la “povertà” delle campagne cinesi. Mi ha dunque mandato per qualche giorno tramite amici di amici di amici di amici (così come del resto tutto funziona in Cina) in casa di un contadino in un non troppo sperduto piccolo villaggio di campagna. Sono tornato vivo e scrivo qualche riga dell’esperienza:
(nota: ogni riferimento a fatti e persone non è casuale, ma fittizi sono i nomi, compreso quello del villaggio, che chiameremo Honolulu. Quanto alla collocazione, ci limitiamo a dire che è un villaggio nelle provincia settentrionale dello Hebei, a due ore di auto da Pechino, sotto le montagne, non lontano dal confine con la Mongolia Interna).
Dopo le varie presentazioni di sorta con le autorità governative del posto (tre quattro funzionari del Partito Comunista, contadini anche loro, grossi grassi e molto gentili) che l’etichetta cinese impone in questi casi, mi chiamano il contadino con cui passerò i cinque giorni nella campagna. Dopo il solito valzer di sigarette e scambio di battute, eccomi in marcia con il contadino che ha avuto la sfortuna di avermi ospite in casa sua. Lo chiameremo Vecchio Li. Vecchio Li, come tutti gli altri nel villaggio, parla solo quello che la gente di città chiama “tuhua” 土话, ovvero “lingua della terra”, non un dialetto, ma un modo diverso di esprimersi in mandarino, con un lessico limitato, sintassi completamente inventata, parole nuove anche per le espressioni più semplici (tipo “cosa?”, “moglie”, “fidanzata”, “spingere”). All’inizio non capisco molto, poi mi abituo e gli altri si abituano al mio mandarino da straniero piombato chissà come in questa remota parte del mondo. Vecchio Li ha cinquantadue anni, fa il contadino da una vita, dimostra vent’anni di più, gli occhi chiari, pochi capelli in testa, mano di cuoio e pelle da iguana. Fuma due pacchi di sigarette al giorno, marca “daqianmen” 大前门, molto economiche, “le sigarette del popolo” mi dice lui. Ama bere. Si prenderà una sbronza di grappa da svaccarsi dalle risate. Il mio amico Vecchio Li si scusa se la sua casa è sporca. La casa è sporca sul serio, ma per fortuna non siamo a Las Vegas o in un centro commerciale di Pechino, e se il soffitto è crepato, il pavimento nero, la polvere ovunque e le pentole sudice, è tutto grasso che cola. Le case di questi contadini sono tutte simili: fatte di mattoni rossi, hanno un piccolo orto e una costruzione esterna per gli attrezzi, solo tre stanze al loro interno, piuttosto ampie. Non esiste bagno, né frigorifero. Ma c’è la corrente. Non l’acqua corrente. C’è un pozzo da cui puoi tirar su dell’acqua e un catino con cui lavarti. Se proprio ne hai voglia. Sono pigro, non cambierò mai. Nella casa di Vecchio Li c’è un cagnolino piccolo e stronzissimo, morde e abbaia sempre. C’è anche il figlio di Vecchio Li, un ragazzo di ventidue anni che lavora a Pechino e che mi ha dato una profonda sensazione di umanità e semplicità di vivere. Una persona da cui imparare molte cose, nonostante la tenera età, insomma. Lo chiameremo Piccolo Li. Piccolo Li parla poco, non fuma, non beve, sorride ed è sempre cortese. E sempre davanti alla televisione. La casa ha ovviamente il tipico kang 炕 (letto in mattoni enorme sotto il quale d’inverno si usa mettere tizzoni per riscaldare il sonno), un mini fornello elettrico, diverse coperte, pacchetti di sigarette vuoti ovunque e un forno in mattoni usato quando neanche la corrente elettrica aveva toccato questa parte di mondo. Sono a mio agio.
Il villaggio non ha ovviamente strade asfaltate e tutte le strade sono pieno di buche e canali: è in atto (da anni credo) un mega progetto per portare l’acqua corrente nelle case e nuove tubature stan lentamente riempiendo le strade. Tutto è lento qui. Per fortuna.
Asini, cavalli, letame, anziani seduti intenti a fumare e campi di mais completano il paesaggio. Non ci sono giovani. Solo qualche studente che torna a casa al tramonto. Pochissime auto. Niente negozi, se non un paio di chioschi dove è possibile comprare di tutto, principalmente carne, sigarette, verdure e prodotti per la casa. In lontananza rumore di trattori, muggire di asini e belare di mucche. Ma fondamentalmente silenzio. Sono a mio agio.
La giornata inizia con quel cazzo di gallo che comincia a rompere le palle molto prima che il sole faccio il suo ingresso trionfale all’alba. Diciamo verso le quattro. Alle cinque e mezza Vecchio Li mi sveglia, mi infilo le scarpe, lui mi infila una sigaretta in bocca e una zappa in spalla. Il villaggio è in già in piedi, gli anziani per strada mi fissano, poi fissano Vecchio Li. Vecchio Li si fa prestare un vecchio camioncino scassato, che parte con la manovella come nei film in bianco e nero di Stanlio ed Onlio. Freschetto la mattina all’alba in t-shirt di Che Guevara in direzione campi fuori il villaggio. Tuttavia piacevole. Vecchio Li mi spiega ed illustra molte cose ed io faccio il possibile per capire. Alle sei si comincia a zappare: c’è un vasto appezzamento di alberi di mele alti mezzo metro appena, fine della missione è sradicare le erbacce attorno agli alberi divisi per fila e smuovere la terra alla radice. Un gioco da ragazzi. In meno di venti minuti bolle alle mani e mal di schiena insopportabile. Ma bisogno sopportare, se Vecchio Li ce la fa, forse il segreto è nelle sigarette e ce la devo fare anche io. Ci si ferma spesso per riposare, due chiacchierare con i vicini di campo, uno sguardo alle montagne, due sigarette e pian piano il campo è fatto. Torniamo a casa per le nove, pranzo a base di carne di maiale, formaggio di soia, spaghetti al brodo, riso al vapore, fagiolini vari, acqua del pozzo. Sono a mio agio.
I pomeriggi proseguono allegri, Vecchio Li ogni tanto scompare, resto a casa con Piccolo Li a far due chiacchiere e guardare la televisione. Poi due passi in giro per il villaggio. Molti anziani sono intenti alla costruzione delle tubature per portare l’acqua nelle case. Con calma e senza fretta. Uno lavora e venti stanno a guardare e chiacchierare. Sigarette a non finire, mi sento leggermente osservato, Vecchio Li è seduto per strada e gioca a scacchi cinesi con un altro anziano. Un signore sui cinquant’anni mi dice di andare con lui e io (perché no!?) lo seguo. È Mastro Shun, un artigiano, un artista. Realizza “gendiao” 根雕, cioè statue di radici di alberi, laccate. Non le vende, ma le regala agli amici e partecipa ai concorsi. Ha denti finiti, tre dita in meno nella mano sinistra, otto cancri ai polmoni. Due pacchi di sigarette al giorno di bassa qualità anche per lui. La casa è ridotta peggio di quella di Vecchio Li. Ma sono a mio agio. Non usano bere kaishui 开水 (acqua bollente o tè, comune un po’ ovunque in Cina, ma non qui, a quanto sembra): da offrire hanno solo sigarette e tanti racconti. Mastro Shun mi mostra orgoglioso i premi che ha vinto con le sue statue. Dice di essere uno dei migliori a Pechino. Poi entra anche Vecchio Lu. Vecchio Lu è alto, capelli e baffi neri, cappello di paglia. Tre pacchi di sigarette al giorno per lui. Esco a fare foto qua e là, finalmente incontro qualche bambino e qualche ragazza. Incredibile ma vero. Sono a mio agio.
La serata termina intorno alle nove o dieci, quando Piccolo Li spegne la televisione, io mi raggomitolo tra le coperte e Vecchio Li non è ancora tornato. Vecchio Li è separato dalla moglie da diversi anni. Mi chiede di portargli una donna dall’Italia, perché qui non ce ne sono di adatte. Vedrò cosa posso fare. Mi chiede se ho moglie. Neanche la fidanzata, rispondo. “Non ti sposare con una donna di campagna. Hanno la pelle scura”. Vedo. A noi musi bianchi la pelle abbronzata (o scura, come preferite) piace. “L’ultima volta che ho visto arrivare degli studenti da fuori è stato durante la Rivoluzione Culturale”. Non so come gli sia venuta fuori questa frase, stavamo bevendo grappa e mangiando carne di asino e zucchine. Ma è una frase che mi ha fatto molto piacere sentire.
Le giornate proseguono uguali, lente, monotone, semplici. Unico fuori programma, la pioggia. E il momento in cui Vecchio Li ha terminato di attaccare i tubi (con accendino e bucce di pannocchie bruciate) dal pozzo e abbiam avuto l’acqua corrente in casa. Ovvero una fontanella. Grande invenzione la fontanella. Mi son potuto lavare i denti dopo tre giorni. Sono piccole grandi soddisfazioni. Dopo la scoperta del fuoco l’invenzione della fontanella ha tutto il mio apprezzamento. Ah, dimenticavo, il bagno… beh, diciamo… stile scout: ovvero una piccola buca in terra non lontana dall’ingresso di casa, a ridosso dell’orto, dietro un albero. Non proprio scomodissimo e neanche una mosca a ronzarti attorno. Lussuoso, direi quasi. Un pomeriggio Vecchio Li mi ha portato a casa di un anziano signore. Cieco credo, vestiva di stracci. La casa, praticamente vuota di tutto, è la casa più nera che abbia mai visto. C’erano solo una mega pila di pannocchie prive di chicchi di mais (usate come combustibile per il fuoco) e un forno di mattoni per cucinare. Immagino quel vecchio signore viva solo e che gli altri abitanti del villaggio passino di lì qualche volta al giorno a fargli da mangiare e tenergli compagnia. Vecchio Li ha acceso il fuoco e cotto dei ravioli nel forno di mattoni. Poi ce ne siamo andati.
A colloquio con i quadri locali (contadini come tutti gli altri, ripeto) ho capito che qui negli anni settanta era tutta un’altra storia. C’era meno terra coltivabile e meno produzione. Negli ultimi dieci anni han disboscato varie zone e messe a coltivazioni di mais e alberi da frutto. Il villaggio è finalmente in via di sviluppo. Una sviluppo infinitamente più lento di quello delle città cinesi, ma siamo ottimisti. La ricchezza del villaggio sono le mele. Crescono grandi e rosse, dolcissime. Cresceranno fra sei anni nella terra di alberi che io e Vecchio Li siamo andati a zappare. Piccole grandi soddisfazioni. Le venderanno ad un prezzo elevato e il villaggio avrà grosse entrate. Le mele renderanno 10.000 renminbi (circa 9.000 euro) per mu (ovvero un quindicesimo di ettaro). Moltissimi mu sono messi a meli qui. Nelle montagne non vive nessuno, perché non c’è acqua per l’agricoltura o l’allevamento. Ma più che fare domande io rispondo alle loro curiosità: un non finire di comparazione di prezzi tra Cina e Italia, domande di politica, economia, famiglia, abitudini, donne. E domande di agricoltura alle quali ovviamente non so rispondere: so solo che il vino si fa con l’uva e che i bambini nascono sotto i cavolfiori. E a volte sotto le zucche.
Il tempo è passato in fretta. Una mattina Piccolo Li mi ha detto che stava tornando a Pechino. E ho deciso di andare con lui. Salutati i dirigenti del partito locale, ho telefonato e ringraziato Vecchio Li, che era non so dove a fissare tubi; abbiam preso un bus carico di contadini, verso la più vicina città. E da lì un altro bus a unga percorrenza, direzione Pechino. Ho dormito tutto il viaggio. Mi son svegliato nel casino e fragore di clacson di questa modestissima metropoli di quindici milioni di abitanti. E il puzzo di smog. E la gente che attraversa le strade senza guardarsi in faccia. E le corse e la fretta. E i commercianti che urlano più forte dei clacson. E il bus per tornare a casa che quasi mi prende sotto. E un caldo afoso. E un aria che sa di morte e alienazione.
Fai subito a provare una certa nostalgia: quella per la zappa e il mal di schiena.
Foto: marijuana selvatica nell’orto di Vecchio Li.
(nota: ogni riferimento a fatti e persone non è casuale, ma fittizi sono i nomi, compreso quello del villaggio, che chiameremo Honolulu. Quanto alla collocazione, ci limitiamo a dire che è un villaggio nelle provincia settentrionale dello Hebei, a due ore di auto da Pechino, sotto le montagne, non lontano dal confine con la Mongolia Interna).
Dopo le varie presentazioni di sorta con le autorità governative del posto (tre quattro funzionari del Partito Comunista, contadini anche loro, grossi grassi e molto gentili) che l’etichetta cinese impone in questi casi, mi chiamano il contadino con cui passerò i cinque giorni nella campagna. Dopo il solito valzer di sigarette e scambio di battute, eccomi in marcia con il contadino che ha avuto la sfortuna di avermi ospite in casa sua. Lo chiameremo Vecchio Li. Vecchio Li, come tutti gli altri nel villaggio, parla solo quello che la gente di città chiama “tuhua” 土话, ovvero “lingua della terra”, non un dialetto, ma un modo diverso di esprimersi in mandarino, con un lessico limitato, sintassi completamente inventata, parole nuove anche per le espressioni più semplici (tipo “cosa?”, “moglie”, “fidanzata”, “spingere”). All’inizio non capisco molto, poi mi abituo e gli altri si abituano al mio mandarino da straniero piombato chissà come in questa remota parte del mondo. Vecchio Li ha cinquantadue anni, fa il contadino da una vita, dimostra vent’anni di più, gli occhi chiari, pochi capelli in testa, mano di cuoio e pelle da iguana. Fuma due pacchi di sigarette al giorno, marca “daqianmen” 大前门, molto economiche, “le sigarette del popolo” mi dice lui. Ama bere. Si prenderà una sbronza di grappa da svaccarsi dalle risate. Il mio amico Vecchio Li si scusa se la sua casa è sporca. La casa è sporca sul serio, ma per fortuna non siamo a Las Vegas o in un centro commerciale di Pechino, e se il soffitto è crepato, il pavimento nero, la polvere ovunque e le pentole sudice, è tutto grasso che cola. Le case di questi contadini sono tutte simili: fatte di mattoni rossi, hanno un piccolo orto e una costruzione esterna per gli attrezzi, solo tre stanze al loro interno, piuttosto ampie. Non esiste bagno, né frigorifero. Ma c’è la corrente. Non l’acqua corrente. C’è un pozzo da cui puoi tirar su dell’acqua e un catino con cui lavarti. Se proprio ne hai voglia. Sono pigro, non cambierò mai. Nella casa di Vecchio Li c’è un cagnolino piccolo e stronzissimo, morde e abbaia sempre. C’è anche il figlio di Vecchio Li, un ragazzo di ventidue anni che lavora a Pechino e che mi ha dato una profonda sensazione di umanità e semplicità di vivere. Una persona da cui imparare molte cose, nonostante la tenera età, insomma. Lo chiameremo Piccolo Li. Piccolo Li parla poco, non fuma, non beve, sorride ed è sempre cortese. E sempre davanti alla televisione. La casa ha ovviamente il tipico kang 炕 (letto in mattoni enorme sotto il quale d’inverno si usa mettere tizzoni per riscaldare il sonno), un mini fornello elettrico, diverse coperte, pacchetti di sigarette vuoti ovunque e un forno in mattoni usato quando neanche la corrente elettrica aveva toccato questa parte di mondo. Sono a mio agio.
Il villaggio non ha ovviamente strade asfaltate e tutte le strade sono pieno di buche e canali: è in atto (da anni credo) un mega progetto per portare l’acqua corrente nelle case e nuove tubature stan lentamente riempiendo le strade. Tutto è lento qui. Per fortuna.
Asini, cavalli, letame, anziani seduti intenti a fumare e campi di mais completano il paesaggio. Non ci sono giovani. Solo qualche studente che torna a casa al tramonto. Pochissime auto. Niente negozi, se non un paio di chioschi dove è possibile comprare di tutto, principalmente carne, sigarette, verdure e prodotti per la casa. In lontananza rumore di trattori, muggire di asini e belare di mucche. Ma fondamentalmente silenzio. Sono a mio agio.
La giornata inizia con quel cazzo di gallo che comincia a rompere le palle molto prima che il sole faccio il suo ingresso trionfale all’alba. Diciamo verso le quattro. Alle cinque e mezza Vecchio Li mi sveglia, mi infilo le scarpe, lui mi infila una sigaretta in bocca e una zappa in spalla. Il villaggio è in già in piedi, gli anziani per strada mi fissano, poi fissano Vecchio Li. Vecchio Li si fa prestare un vecchio camioncino scassato, che parte con la manovella come nei film in bianco e nero di Stanlio ed Onlio. Freschetto la mattina all’alba in t-shirt di Che Guevara in direzione campi fuori il villaggio. Tuttavia piacevole. Vecchio Li mi spiega ed illustra molte cose ed io faccio il possibile per capire. Alle sei si comincia a zappare: c’è un vasto appezzamento di alberi di mele alti mezzo metro appena, fine della missione è sradicare le erbacce attorno agli alberi divisi per fila e smuovere la terra alla radice. Un gioco da ragazzi. In meno di venti minuti bolle alle mani e mal di schiena insopportabile. Ma bisogno sopportare, se Vecchio Li ce la fa, forse il segreto è nelle sigarette e ce la devo fare anche io. Ci si ferma spesso per riposare, due chiacchierare con i vicini di campo, uno sguardo alle montagne, due sigarette e pian piano il campo è fatto. Torniamo a casa per le nove, pranzo a base di carne di maiale, formaggio di soia, spaghetti al brodo, riso al vapore, fagiolini vari, acqua del pozzo. Sono a mio agio.
I pomeriggi proseguono allegri, Vecchio Li ogni tanto scompare, resto a casa con Piccolo Li a far due chiacchiere e guardare la televisione. Poi due passi in giro per il villaggio. Molti anziani sono intenti alla costruzione delle tubature per portare l’acqua nelle case. Con calma e senza fretta. Uno lavora e venti stanno a guardare e chiacchierare. Sigarette a non finire, mi sento leggermente osservato, Vecchio Li è seduto per strada e gioca a scacchi cinesi con un altro anziano. Un signore sui cinquant’anni mi dice di andare con lui e io (perché no!?) lo seguo. È Mastro Shun, un artigiano, un artista. Realizza “gendiao” 根雕, cioè statue di radici di alberi, laccate. Non le vende, ma le regala agli amici e partecipa ai concorsi. Ha denti finiti, tre dita in meno nella mano sinistra, otto cancri ai polmoni. Due pacchi di sigarette al giorno di bassa qualità anche per lui. La casa è ridotta peggio di quella di Vecchio Li. Ma sono a mio agio. Non usano bere kaishui 开水 (acqua bollente o tè, comune un po’ ovunque in Cina, ma non qui, a quanto sembra): da offrire hanno solo sigarette e tanti racconti. Mastro Shun mi mostra orgoglioso i premi che ha vinto con le sue statue. Dice di essere uno dei migliori a Pechino. Poi entra anche Vecchio Lu. Vecchio Lu è alto, capelli e baffi neri, cappello di paglia. Tre pacchi di sigarette al giorno per lui. Esco a fare foto qua e là, finalmente incontro qualche bambino e qualche ragazza. Incredibile ma vero. Sono a mio agio.
La serata termina intorno alle nove o dieci, quando Piccolo Li spegne la televisione, io mi raggomitolo tra le coperte e Vecchio Li non è ancora tornato. Vecchio Li è separato dalla moglie da diversi anni. Mi chiede di portargli una donna dall’Italia, perché qui non ce ne sono di adatte. Vedrò cosa posso fare. Mi chiede se ho moglie. Neanche la fidanzata, rispondo. “Non ti sposare con una donna di campagna. Hanno la pelle scura”. Vedo. A noi musi bianchi la pelle abbronzata (o scura, come preferite) piace. “L’ultima volta che ho visto arrivare degli studenti da fuori è stato durante la Rivoluzione Culturale”. Non so come gli sia venuta fuori questa frase, stavamo bevendo grappa e mangiando carne di asino e zucchine. Ma è una frase che mi ha fatto molto piacere sentire.
Le giornate proseguono uguali, lente, monotone, semplici. Unico fuori programma, la pioggia. E il momento in cui Vecchio Li ha terminato di attaccare i tubi (con accendino e bucce di pannocchie bruciate) dal pozzo e abbiam avuto l’acqua corrente in casa. Ovvero una fontanella. Grande invenzione la fontanella. Mi son potuto lavare i denti dopo tre giorni. Sono piccole grandi soddisfazioni. Dopo la scoperta del fuoco l’invenzione della fontanella ha tutto il mio apprezzamento. Ah, dimenticavo, il bagno… beh, diciamo… stile scout: ovvero una piccola buca in terra non lontana dall’ingresso di casa, a ridosso dell’orto, dietro un albero. Non proprio scomodissimo e neanche una mosca a ronzarti attorno. Lussuoso, direi quasi. Un pomeriggio Vecchio Li mi ha portato a casa di un anziano signore. Cieco credo, vestiva di stracci. La casa, praticamente vuota di tutto, è la casa più nera che abbia mai visto. C’erano solo una mega pila di pannocchie prive di chicchi di mais (usate come combustibile per il fuoco) e un forno di mattoni per cucinare. Immagino quel vecchio signore viva solo e che gli altri abitanti del villaggio passino di lì qualche volta al giorno a fargli da mangiare e tenergli compagnia. Vecchio Li ha acceso il fuoco e cotto dei ravioli nel forno di mattoni. Poi ce ne siamo andati.
A colloquio con i quadri locali (contadini come tutti gli altri, ripeto) ho capito che qui negli anni settanta era tutta un’altra storia. C’era meno terra coltivabile e meno produzione. Negli ultimi dieci anni han disboscato varie zone e messe a coltivazioni di mais e alberi da frutto. Il villaggio è finalmente in via di sviluppo. Una sviluppo infinitamente più lento di quello delle città cinesi, ma siamo ottimisti. La ricchezza del villaggio sono le mele. Crescono grandi e rosse, dolcissime. Cresceranno fra sei anni nella terra di alberi che io e Vecchio Li siamo andati a zappare. Piccole grandi soddisfazioni. Le venderanno ad un prezzo elevato e il villaggio avrà grosse entrate. Le mele renderanno 10.000 renminbi (circa 9.000 euro) per mu (ovvero un quindicesimo di ettaro). Moltissimi mu sono messi a meli qui. Nelle montagne non vive nessuno, perché non c’è acqua per l’agricoltura o l’allevamento. Ma più che fare domande io rispondo alle loro curiosità: un non finire di comparazione di prezzi tra Cina e Italia, domande di politica, economia, famiglia, abitudini, donne. E domande di agricoltura alle quali ovviamente non so rispondere: so solo che il vino si fa con l’uva e che i bambini nascono sotto i cavolfiori. E a volte sotto le zucche.
Il tempo è passato in fretta. Una mattina Piccolo Li mi ha detto che stava tornando a Pechino. E ho deciso di andare con lui. Salutati i dirigenti del partito locale, ho telefonato e ringraziato Vecchio Li, che era non so dove a fissare tubi; abbiam preso un bus carico di contadini, verso la più vicina città. E da lì un altro bus a unga percorrenza, direzione Pechino. Ho dormito tutto il viaggio. Mi son svegliato nel casino e fragore di clacson di questa modestissima metropoli di quindici milioni di abitanti. E il puzzo di smog. E la gente che attraversa le strade senza guardarsi in faccia. E le corse e la fretta. E i commercianti che urlano più forte dei clacson. E il bus per tornare a casa che quasi mi prende sotto. E un caldo afoso. E un aria che sa di morte e alienazione.
Fai subito a provare una certa nostalgia: quella per la zappa e il mal di schiena.
Foto: marijuana selvatica nell’orto di Vecchio Li.
3 Comments:
Ti stimo moltissimo...
Grandissima esperienza. Mi hai insegnato la parola tuhua, la userò tantissimo.
Quanto rendono le mele per ettaro? Dev'esser partito uno zero da qualche parte.
scritto male la quota in euro: allora, un MU 亩 (1/15 ettaro) di campo di alberi di mele frutta un WAN 万(10.000 rmb, circa 1.100 euro). cioè ogni ettaro di terra di mele darà circa 16.500 euro di ricavo. fra sei anni!
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