Wednesday, October 07, 2020

Sotto i ferri: 24 ore dopo.

"Sotto i ferri", italiano per intendere il subire un intervento chirurgico, è un'espressione che credo di aver sentito per la prima volta da piccolo, quando in famiglia un anziano zio si doveva operare al cuore ma diceva di preferire morire in casa piuttosto che nella fredda sala dei ferri, dove l'ultimo saluto è lontano dagli affetti. Non mi sono mai fatto un'opinione a riguardo, credo sempre e soltanto nella libera scelta individuale.

"Sotto i ferri" sono finito in vita mia per tre volte, fortunatamente per cose di poco conto. La prima volta a 14 anni, all'ospedale di Ancona. Ricordo che quel giorno morì Lady Diana, ricordo che ascoltavo gli Articolo31 e che nella notte saltarono i punti e macchiai le lenzuola di sangue. La seconda volta, una decina di anni fa, all'ospedale di Civitanova: ricordo che rinviarono l'intervento per un guasto agli ascensori (roba da sanità nella Corea del Nord) e che l'anestesia mi tenne "fuori" di testa per diverse ore, col riso divertito degli amici che vennero a trovarmi. La terza, sempre in un ospedale di Civitanova, 24 ore fa.

Nella vita, si sa, non si può solo star bene e in salute. E allora ci si imbatte con visite mediche, camici, farmaci, sale operatorie. Per quel che mi riguarda, ancora per questioni di minore rilevanza. 

E quindi mi presento alle porte del reparto qualche minuto prima delle sette di mattina. Causa Covid-19 fanno entrare solo i pazienti, via famigliari e accompagnatori. Mi ritrovo in una comoda e accogliente stanza d'ospedale, con un altro paziente sulla settantina e un'infermiera bionda che ci ordina di spogliarci e prepararci per la depilazione e l'operazione. Poco dopo portano via il mio nuovo compagno d'avventura, che mi ha già raccontato delle sue donne, dei suoi precedenti interventi e della sua passione per i soldi e la Borsa. Fisso il soffitto, poi il televisore spento, mi interrogo sul senso della vita, poi ascolto la radio dalle cuffiette del telefono cellulare.

Non passa molto che rientra il settantenne, bello arzillo e con parole di lode per l'operato di medici, infermieri ed anestesisti. Sembra appena uscito da un tuffo al mare o da "una bella scopata" (come spesso mi ripete) più che da un'operazione chirurgica. Svuoto la vescica al bagno e mi chiamano perché è il mio turno. La barella, gli ascensori, le luci del soffitto, l'infermiera che mi buca il braccio chiedendomi se ho paura degli aghi. Vecchi ricordi. Sono sereno. Di questa nuova avventura ospedaliera temo solo di dover stare troppo a lungo in degenza lontano dai banchi di scuola e dai miei ragazzi e ragazze. 

Sala operatoria, scruti tutti e tutte dal basso all'alto, i camici, le mascherine, i ferri, parlottare para professionale, ripetere spesso "Daniele blablabla", "Daniele blablabla". "Ora ti facciamo l'anestesia in vena, sentirai un piccolo giramento di testa". Non sento niente. Ma dal lampadario a specchio riesco a vedere il mio ombelico, un paio di mani armate che iniziano a tagliarmi, del sangue, delle garze, un buco rosso. Il chirurgo si ferma quasi subito, forse infastidito dai miei mugugni e dal muovere le gambe. L'anestesia ha fatto poco effetto. Il tempo di un'altra iniezione e mi sveglio che sono di nuovo in camera da letto. Sono le 10.30 circa.

Ho sonno e vorrei dormire, provo a girarmi ma sento una fitta al ventre. Mi rimetto supino, guardo a destra. Il settantenne mi chiede se va tutto bene. No, non va tutto bene, mi fa un male cane l'addome. Come tante fitte profonde e, oltre a questo, più in basso, come ad avere la vescica piena da giorni. Rifletto profondamente sulla distinzione tra fastidio e dolore. Provo a distrarmi con la televisione e il mio compagno di stanza che non smette di parlarmi di politica, di finanza e di donne. Penso di aver perso l'uso del pene. Non farò mai più l'amore. Ma il problema più imminente è questa fitta alla pancia e alla vescica. Passa una dottoressa, non riesco ancora a parlare o a muovermi bene. Mi tolgono la flebo. Chiamo un'infermiera e mi faccio dare il "pappagallo", tradizionale figura funzionale e plastica dei locali ospedalieri. Niente. Non riesco ad orinare. Resisto ancora un po', poi all'ennesima lezione di borsa, sbircio le ciabatte a lato del letto e faccio per alzarmi. Dolore madornale, come se ti strappassero le budella. Guardo il signore di fronte a me, per capire se mi giri la testa o meno. Mi alzo, tenendomi la pancia con entrambe le braccia, poi entro in bagno. Una liberazione incomprensibile. Torno a letto come un guerriero dalla battaglia. Ora sto molto meglio e consiglio al mio compagno di stanza di fare lo stesso.

Il dolore non accenna a diminuire, ma riesco anche ad addormentarmi per qualche decina di minuti. Poi è un via vai di infermieri e dottoresse, tutti molti gentili, educati e competenti. Quando passa in visita il chirurgo ordina per me una bella dose di antidolorifico e una pancera. Una pancera. Come per gli anziani. Faccio una mezza battuta che neanche ricordo, risata generale, "non mi faccia ridere che mi duole la risata", supplico il dottore. Maledette budella. Quando ci portano la lettera di dimissione capisco che ce ne possiamo andare a casa. Sono circa le 16.30. Vedo il mio simpatico coinquilino armeggiare per rivestirsi e andare al bagno. Provo a fare lo stesso. L'antidolorifico in vena ha dato qualche frutto, la pancia fa meno male ma peno un'eternità per rimettermi ciabatte, pantaloni e rifare lo zaino. L'infermiera più bella e più giovane viene a togliermi l'ago e darmi le ultime indicazioni. Sembro un profugo sbarcato sulle coste pugliesi negli anni '90. Dai, mi sento come dopo l'urto con un tram ma ce la posso fare. All'uscita dall'ospedale trovo mia madre ad aspettarmi. Anche salire in auto è un'impresa titanica.

A 24 ore di distanza mi sento ancora come una donna incinta al nono mese accoltellata all'addome e non posso far altro che stare disteso supino, a letto o sul divano tra trenta cuscini. Non mi ha mai seccato come in questo momento avere la pancia che mi ritrovo. Brutto sentirsi limitati, paralizzati, disabili, costretti. Brutto per sé e per gli altri. Spero questa convalescenza proceda per il meglio e termini a breve. Vorrei tornare a camminare all'aperto, libero e sfrontato, vorrei tornare a prendere la moto e andare per stradine di campagna, vorrei prendere i libri e tornare a scuola tra i miei alunni ed alunne. Nel frattempo, bestemmie di dolore e quella sensazione di avere un pesante marsupio attaccato con punti di sutura direttamente all'intestino colon. In attesa di tempi migliori. "Sotto i ferri" vaffanculo.


p.s. A distanza di tanti anni e di tanti viaggi, continuo a credere che la sanità pubblica sia qualcosa di molto importante. Agli operatori e alle operatrici sanitarie responsabili del mio intervento va il mio più sincero ringraziamento. 

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