Tuesday, May 29, 2018

Quando la sfiga si accanisce: tragicronaca di una gita a Pavia.

 
Lunedì è il mio giorno libero. Sono reduce da una domenica di trekking bestiale sui monti dei Trentino e oggi in Lombardia il meteo promette pioggia. Coerentemente con le previsioni, decido quindi di andare a visitare una città dove non sono mai stato: Pavia.



Alle otto di mattina gli studenti sono già a scuola e il traffico si tranquillizza un po’. Prendo dunque l’auto direzione Cremona. Una selezione musicale da brivido: De Gregori, Afterhours, Rancid, canti briganti, Beethoven. La strada è libera, il cielo alto e azzurro. Chi l’ha detto che il lunedì è un giorno di merda?!



Superata Cremona vengo fermato da una pattuglia di Vigili urbani in un paesino lungo la Statale, un paesino non meglio identificato del quale non ricordo ovviamente il nome. Mi dicono che la strada è bloccata a causa di un incidente che coinvolge un camion, e di prendere una strada sterrata dopo il cimitero per rientrare più avanti nella Statale. Sbaglio ovviamente la prima traversa, ma mi riprendo quasi subito. Continuando per qualche chilometro la strada sembra finire in un campo di melma e pozzanghere, una specie di risaia cinese con dossi di fango qua e là. Eppure il vigile aveva detto… ed infatti a circa mezzo chilometro noto un camion passare, dev’essere la Statale! Continuo convinto, mi fermo solo davanti ad una pozzanghera di quattro metri per quattro, dopo aver rischiato di impantanarmi un paio di volte. Scendo dall’auto. Indietro non posso tornare. La macchina è color fango e decido di sporcare anche le scarpe per essere in tinta. Poco dopo, mentre ero in piedi a fissare il vuoto cercando di capire cosa fare della vita, vedo un furgoncino avvicinarsi e immergersi nella vasca di melma come se nulla fosse. Ne esce fradicio, ma vivo. Mi faccio coraggio e provo anche io. Per fortuna l’auto non si impantana e poco più là raggiungo la Statale.



Ottanta minuti e un paio di lavori in corso dopo giungo a destinazione. Abbandono l’auto al cimitero e mi addentro seguendo il naviglio (un “naviglio” è un corso d’acqua artificiale, tipo un canale. Non so perché in Lombardia li chiamino così).  A Pavia non conosco nessuno. Però in Cina avevo degli amici della provincia di Pavia, personaggi incredibili che mi rode il culo non avere più al fianco.



Ma questa città mi riporta alla mente un’altra simpatica avventura.

W. è un mio caro amico, uno di quelli con i quali ho fatto molta strada assieme. Sarebbe più corretto dire “marciapiede”, ma tant’è! W. è sempre stato un fenomeno con le ragazze, un po’ come quel tale nella canzone dei Modena City Ramblers che “si tromba tutte le donne, non chiede neanche il nome”. Ecco, quella volta avevamo 18 anni o giù di lì, ed eravamo piantonati alla stazione dei treni di un minuscolo paesino nel sud del Portogallo. Agosto pieno, caldo asfissiante, noi due a guardarci in faccia e chiederci come mai fossimo finiti lì. Con noi c’erano altre quattro disperate, tutte ragazze di Pavia. Ad un certo punto, e senza una ragione apparente, una di loro esclamò fissandoci: “Bene, io vado a cercare un bagno per sciacquarmi”. Tanto per attaccare bottone W. le chiese “Vai a farti una doccia?”. E lei: “No, vado a sciacquarmi la fica, vuoi venire con me?”. Vedo W. voltarsi di scatto disgustato, quasi come a vomitarsi addosso. 
Avere 18 anni era davvero una figata pazzesca. 
Comunque non l’ho mai più visto rifiutare una ragazza.



Visito il centro, il lungo Ticino, alcune chiese e la celebre università. Mi dicono che la Certosa sia distante solo 7 chilometri. Stranamente ancora non piove, perché dunque non proseguire a piedi? Così faccio, sbagliando subito lato del naviglio e ritrovandomi a costeggiare l’Autostrada A7, ma riuscendo tuttavia a riprendere la retta via dopo aver scalato una collinetta di terra e una pianta di rovi. Una ragazza con carrozzina procede sparata per il percorso che, intuisco, segue il naviglio per giungere alla Certosa e continuare per Milano. Decido di dar fiducia alla situazione e la seguo, senza tuttavia mai raggiungerla, tanto andava veloce. Alcuni chilometri dopo sono però a destinazione. Le gambe fanno male e manca ancora un lungo viale alberato alla chiesa ma l’umore è alle stelle. Dio decide subito di punirmi, infatti scopro che purtroppo la Certosa E’ CHIUSA TUTTI I LUNEDI’. Svengo incredulo sul pianerottolo, aspettando che qualcuno venga a portarmi via. Ma non passa nessuno. Noto la scritta “Bar” fuori da una cascina lì vicino. La raggiungo. Niente, chiuso anche il bar. Maledetti baristi, siete peggio dei preti! Non mi resta che riprendere il lungo canale per tornare a Pavia. Almeno non piove. Cioè, non pioveva. Infatti di lì a poco arriva l’acqua e giungo in città con lo shampoo già fatto.



Nonostante la sfortuna, sono soddisfatto della piccola impresa e della resa delle gambe. Crollo finalmente in macchina e accendo i motori per rientrare a Mantova. Alla radio parlavano del mancato Ministero a Savona e alla crisi di (non) governo, quand’ecco che sento quello strano rumore. Sono lanciato in tangenziale, alle porte di Cremona, e quel rumore proprio non ci voleva. Ho un brutto presentimento. Alzo i finestrini, spengo la radio. Niente da fare. Mi fermo al lato della strada tanto per constatare: ruota a terra. Neanche il tempo di bestemmiare in ucraino antico che le macchine che sfrecciano lampeggiando mi fanno capire che di lì me ne devo andare subito. Percorro un chilometro ad andatura moderata per cercare un posto sicuro dove abbandonare l’auto.



Il mio profondo odio per la modernità fa sì che non abbia abbonamento internet al cellulare. E in casi del genere non posso far altro che chiamare qualche amico per farmi aiutare con le informazioni trovate in rete, tipo sapere a che ora parte l’ultimo treno per Mantova. Sono le otto di sera. Piove. Il sole sta tramontando, non c’è un cane in giro, non so dove sono né come raggiungere la stazione. Ma scopro quasi subito di non essere poi così lontano. Corro per lasciar andar via l’incazzatura. Giunto in stazione scopro che il treno in arrivo da Milano porta una decina di minuti di ritardo. E io che pensavo di averlo perso! Cerco una macchinetta per fare il biglietto e si avvicina un tizio nero con delle buste. Penso che voglia moneta. Invece mi dice di essere appena uscito di galera e di voler chiamare la madre. Gli presto il cellulare (voi non l’avreste fatto?), parla una lingua indecifrabile tra l’urdu, l’hindi e il bengali, credo. Ha le braccia coperte di tatuaggi e un rosario celeste al collo, di quelli che vedevo da piccolo nelle tasche di mia nonna. Quando mi restituisce il telefono non ha neanche il tempo di ringraziare che mi fiondo sul binario per il mio regionale Milano-Mantova. In treno mi immergo nella lettura di un libro che avevo con me, giusto per non pensare alla sfiga della ruota e al mal di testa crescente.



Giunto nella città virgiliana, vengo assalito da un’afa insolita. Il cielo lampeggia e promette un temporale che non arriverà. Una bella doccia (in bagno, stavolta) è proprio quello che ci vuole. Uscito dalla doccia mi chiamano al telefono: è la madre del ragazzo cingalese beccato in stazione, preoccupata perché non sa dove si trovi il figlio. Mi dispiace non poter essere molto daiuto.
Avrei solo tanta voglia di buttarmi a letto, ma la sfiga di oggi non ha ancora finito il suo turno di lavoro: noto un piccolo esserino nero fuoriuscirmi dal lato sinistro, allaltezza dellombelico. Indovinate? Una zecca! Devo averla presa ieri in montagna, è capitato (proprio ieri!) ad altre due mie compagne di marcia. Incredulo, stanco e forse incazzato, esco di casa in infradito, direzione lunico supermercato aperto h24. Lì trovo un altro compagno di trekking, anche lui lì causa zecche. Cerchiamo delle pinzette per poter estrarre linsetto senza rischiare di lasciare la sua testa (non dico di che razza di testa si tratta per non essere volgare) nella nostra carne. Purtroppo però il supermercato non ha pinzette da ciglia, e quindi per stanotte la zecca dormirà in me. 

E ormai quasi luna di notte. Quando infilo le chiavi nella serratura di casa capisco che la giornata è finita e che, tutto sommato, è stata una giornata divertente. Sobria. E mai volgare.



e tu mi fai,

‘Vogliamo stare a casa?’

a casa stacci tu!    

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