Manette agli accademici? Attenzione prima di gridare allo scandalo.
Sto cercando di seguire il caso nazionale esploso da un paio di giorni sulle presunte corruzioni in ambito accademico per abilitazioni all'insegnamento. Mi permetto una serie di considerazioni che probabilmente deluderanno studenti, colleghi, amici, conoscenti. Premetto che sono entrato in università come studente nel lontano ottobre 2001, a 19 anni appena compiuti. Ne sono uscito da docente in questo settembre 2017, dopo aver rifiutato un contratto ad alcuni insegnamenti che mi erano stati assegnati.
Senza stare a raccontare tutta la storia, riporto qui uno dei punti centrali relativi a questo caso, utilizzando le parole de IlMattino online:
"Da una delle intercettazioni effettuate risulta che i vincitori del concorso nazionale per l'abilitazione scientifica all'insegnamento nel settore del diritto tributario venivano scelti con una «chiamata alle armi» tra i componenti della commissione giudicante, e non in base a criteri di merito."
Il problema qui è la definizione di "merito". "Merito" è una bella parola, un po' come "meritocrazia". Sarebbe bello se a svolgere un compito, tipo amministrare lo Stato o gestire una bancarella di pesce, siano persone competenti. Dico appunto "sarebbe". La realtà dei fatti dimostra spesso il contrario. Secondo me questo accade perché "merito" è una parola vuota, che puzza di utopico.
Che significa "merito" in ambito accademico? Significa titoli (come li hai ottenuti? Dove? Da chi?), anni di esperienza certificata (certificata da chi? Dove?), pubblicazioni (saggi e articoli scritti da chi? Come? Pubblicati dove? Come? Per chi?) e conoscenze che ti permettono di arrivare a dimostrare il tuo eventuale "merito". Benissimo. Concorderete che un candidato che presenta il suo "merito" lo fa fondamentalmente su carta ad una commissione che di quel candidato potrebbe non sapere assolutamente nulla. Un perfetto estraneo. Che tuttavia ha il sacrosanto diritto di fare domanda, partecipare alla selezione e mostrare quanto vale, insomma far vedere quale sia il suo "merito".
Poi c'è il candidato che, oltre ad avere titoli, esperienza, pubblicazioni e conoscenze, lavora da anni con un professore ordinario del posto (stiamo parlando infatti di mondo accademico), magari ha studiato in quello stesso ateneo, conosce colleghi, studenti, amministrativi e professori ordinari, è legato al territorio, ha una storia che lo vincola non solo a quel particolare ramo di ricerca e di insegnamento, ma anche e soprattutto a quella realtà territoriale.
La domanda è: chi scegliereste voi? Esatto.
E' evidente quindi che il personale accademico di quell'ateneo scriva un bando ad hoc per questo o quel candidato di loro "fiducia". Che senso ha parlare di "concorso truccato"?!
Quand'ero più giovane assimilavo la parola "raccomandazione" ad una parolaccia, ad un crimine, alla mafia. Poi ho scoperto che ci sono due tipi di raccomandazione, diametralmente opposti: un conto è raccomandare una persona perché è venuta a letto con te o perché ti ha fatto un favore o pagato una certa somma; un conto è raccomandare una persona perché la conosci, l'hai formata, l'hai seguita e, in breve, ne conosci meriti e demeriti. Nel prima caso si può parlare di corruzione; nel secondo no.
Quindi, tornando al merito: secondo me il "merito" provato in un curriculum vitae dice poco rispetto ad un candidato altrettanto meritevole ma più conosciuto e seguito rispetto al primo. Funziona così anche in ambito aziendale, nel volontariato, nell'impresa di famiglia e in mille altri casi di selezione di personale per dei fini professionali. Questo perché "merito" resta una parola troppo spesso vuota, che ha la pretesa di misurare e raccogliere su carta stampata le competenze professionali (e non solo) di una persona, e del suo percorso di studi, di lavoro, di vita.
Mi rendo conto che il mio punto di vista finisce col limitare la mobilità del personale docente e ricercatore nelle università, tanto più in un'epoca di migrazioni, globalizzazioni e internazionalizzazioni. Però riduce anche l'alienazione dello stesso personale e dà (a mio modestissimo avviso) più dignità e progettualità ai lavoratori.
Per concludere: se una commissione sceglie un candidato completamente incompetente solo perché il padre di quest'ultimo ha finanziato l'istituto di ricerca del professore di turno o pagato un viaggio alle Seychelles a tutta la famiglia del professore tal dei tali, allora fan bene i finanzieri a far scattare le manette. In caso contrario non direi. O, per lo meno, non gridate allo scandalo perché di scandali qui non ne vedo.
Attendo con ansia i vostri insulti.
Senza stare a raccontare tutta la storia, riporto qui uno dei punti centrali relativi a questo caso, utilizzando le parole de IlMattino online:
"Da una delle intercettazioni effettuate risulta che i vincitori del concorso nazionale per l'abilitazione scientifica all'insegnamento nel settore del diritto tributario venivano scelti con una «chiamata alle armi» tra i componenti della commissione giudicante, e non in base a criteri di merito."
Il problema qui è la definizione di "merito". "Merito" è una bella parola, un po' come "meritocrazia". Sarebbe bello se a svolgere un compito, tipo amministrare lo Stato o gestire una bancarella di pesce, siano persone competenti. Dico appunto "sarebbe". La realtà dei fatti dimostra spesso il contrario. Secondo me questo accade perché "merito" è una parola vuota, che puzza di utopico.
Che significa "merito" in ambito accademico? Significa titoli (come li hai ottenuti? Dove? Da chi?), anni di esperienza certificata (certificata da chi? Dove?), pubblicazioni (saggi e articoli scritti da chi? Come? Pubblicati dove? Come? Per chi?) e conoscenze che ti permettono di arrivare a dimostrare il tuo eventuale "merito". Benissimo. Concorderete che un candidato che presenta il suo "merito" lo fa fondamentalmente su carta ad una commissione che di quel candidato potrebbe non sapere assolutamente nulla. Un perfetto estraneo. Che tuttavia ha il sacrosanto diritto di fare domanda, partecipare alla selezione e mostrare quanto vale, insomma far vedere quale sia il suo "merito".
Poi c'è il candidato che, oltre ad avere titoli, esperienza, pubblicazioni e conoscenze, lavora da anni con un professore ordinario del posto (stiamo parlando infatti di mondo accademico), magari ha studiato in quello stesso ateneo, conosce colleghi, studenti, amministrativi e professori ordinari, è legato al territorio, ha una storia che lo vincola non solo a quel particolare ramo di ricerca e di insegnamento, ma anche e soprattutto a quella realtà territoriale.
La domanda è: chi scegliereste voi? Esatto.
E' evidente quindi che il personale accademico di quell'ateneo scriva un bando ad hoc per questo o quel candidato di loro "fiducia". Che senso ha parlare di "concorso truccato"?!
Quand'ero più giovane assimilavo la parola "raccomandazione" ad una parolaccia, ad un crimine, alla mafia. Poi ho scoperto che ci sono due tipi di raccomandazione, diametralmente opposti: un conto è raccomandare una persona perché è venuta a letto con te o perché ti ha fatto un favore o pagato una certa somma; un conto è raccomandare una persona perché la conosci, l'hai formata, l'hai seguita e, in breve, ne conosci meriti e demeriti. Nel prima caso si può parlare di corruzione; nel secondo no.
Quindi, tornando al merito: secondo me il "merito" provato in un curriculum vitae dice poco rispetto ad un candidato altrettanto meritevole ma più conosciuto e seguito rispetto al primo. Funziona così anche in ambito aziendale, nel volontariato, nell'impresa di famiglia e in mille altri casi di selezione di personale per dei fini professionali. Questo perché "merito" resta una parola troppo spesso vuota, che ha la pretesa di misurare e raccogliere su carta stampata le competenze professionali (e non solo) di una persona, e del suo percorso di studi, di lavoro, di vita.
Mi rendo conto che il mio punto di vista finisce col limitare la mobilità del personale docente e ricercatore nelle università, tanto più in un'epoca di migrazioni, globalizzazioni e internazionalizzazioni. Però riduce anche l'alienazione dello stesso personale e dà (a mio modestissimo avviso) più dignità e progettualità ai lavoratori.
Per concludere: se una commissione sceglie un candidato completamente incompetente solo perché il padre di quest'ultimo ha finanziato l'istituto di ricerca del professore di turno o pagato un viaggio alle Seychelles a tutta la famiglia del professore tal dei tali, allora fan bene i finanzieri a far scattare le manette. In caso contrario non direi. O, per lo meno, non gridate allo scandalo perché di scandali qui non ne vedo.
Attendo con ansia i vostri insulti.
2 Comments:
Bella Danie, allora mi permetto di risponderti su questo post. Partiamo dal presupposto che sono daccordissimo con te sulla fumosita' e assoluta falsita' del merito considerato come criterio oggettivamente valutabile e, ancora di meno, quantificabile. Sono anche daccordo sul fatto che legame al territorio, precedenti collaborazioni, e dimostrata abilita' di lavorare insieme siano criteri importantissimi.
MA:
a) questi criteri potrebbero ( e a mio parere dovrebbero) essere inseriti nel bando in maniera chiara e trasparente, della serie preferiamo persono con un track record di attivita' e collaborazioni con noi (tra l'altro sarebbe legale farlo).
b) queste tue osservazioni non hanno nessuna relazione con il caso che e' scoppiato ora. Li non si trattava di un insegnamento, un contratto di ricerca, o una posizione da professore ma di abilitazione nazionale, una cosa per definizione non territoriale, che non riguarda ne determina un lavoro specifico con dei colleghi. La cosa e' molto piu' grave e totalmente slegata al tuo discorso: si tratta di un professore che dice ad un altro (che in ogni altra parte del mondo sarebbe anch'esso un professore- percio' un collega) di non fare domanda di abilitazione per paura che, una volta ottenuta, potesse "rubare" un posto ad altri candidati di fronte ad una commissione di concorso.
Hai ragione, tuttavia non capisco questa "chiamata alle armi" per degli esami abilitanti. Non essendo un concorso, ma un esame, non si è concorrenti e non c'è il "morte tua, vita mia", sbaglio? Non abilitare un giovane docente per paura che prenda il posto di un proprio raccomandato su scala nazionale o internazionale non ha senso. Forse gareggiavano per lo stesso posto nello stesso ateneo, altrimenti non si spiega. Alcuni giornali titolano "Spartizioni di cattedre e concorsi truccati", fin qui non mi sembra nulla di strano, se per "truccati" si intende "ad hoc" e non concessione per corruzione (tipo favori, soldi, sesso o altro). Fare pressione su un candidato perché ritiri la propria candidatura all'abilitazione per favorire un altro si commenta da solo.
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