Diario di un prof: dell'ego, ovvero se a fare l'esame è il prof...
Gli esami non finiscono mai. E si sa. E che palle. Che, da una parte, meglio così. Dall'altra, semplicemente, che palle. Va detto però che senza esami, verifiche e relativi stati d’ansia la vita sarebbe di una noia terribile.
Dunque stavolta tocca a me: l'esame! L'ennesimo. Una serie di esami (scritti, orali, venerei e psico-attitudinali) per poter accedere ad un corso che paghi profumatamente per poi... lavorare. Cioè devi pagare per poter lavorare. Una volta se lavoravi ti pagavano. Oggi devi pagare se vuoi lavorare. Il più delle volte "a gratis". Magari per un over 50 questa è follia. Per un under 50 questa è la normalità e sappiamo entrambi di saperlo.
Bene. Allora esaminiamoci. Ragionavo l'altra sera con mio cugino e con una mia studentessa che anche un esame facilissimo se non ben preparato risulta automaticamente difficile o quasi impossibile. Io non l'ho preparato. Non ho avuto tempo. E meno ancora voglia. Se uno lavora (un paio di lavoretti, più il volontariato e l'auto-assistenza-sociale), difficilmente ha voglia di preparare esami. Gli esami si preparavano quando sei studente e di mestiere studi.
Chi non prepara un esame non può che provare a girare la ruota. E così ho fatto. Abbastanza serenamente, senza ipocrisie: sai di non aver studiato, ma provi ad affrontare ugualmente la prova. Sempre un'emozione bellissima ri-sedersi tra i banchi munito solo di penna e vocabolario monolingue cartaceo, gli esaminatori in piedi davanti a te a spiegare le regole del gioco. Quando viene distribuito il testo d'esame sai che a breve si parte. Tre pagine in tutto. Spulcio veloce con lo sguardo i quesiti. Chiudo. Primo pensiero: "va bene, dai, si può fare". Ci ripenso: "Sì, è facile, ce la posso fare". Parte automatico un sorriso sdrammatizzatore. Poi rileggo una per una le tracce, i testi, le domande. Avevo tradotto male l'ultimo quesito: devo riflettere bene sulla risposta. Fa niente, ci penso dopo. Il resto si può fare, anzi, lo faccio subito...
E giù a scrivere a capo chino, un occhio al vocabolario e l'altro al foglio, la penna in una mano, quel che resta dei capelli nell'altra. Scrivi, scrivi, scrivi. Il tempo passa in fretta, dopo un'ora e venti minuti ho pressoché terminato il lavoro, resta solo quella domanda che mi desta qualche perplessità. Poso la penna al tavolo, il mento fra le mano. Fisso l'esaminatrice, che a sua volta fissa me. Una professoressa cinese, una bella signora cinese. Penso alla Cina. Ai miei sei anni e passa in Cina. Alla mia vita a Pechino. Ripenso ad un romanzo che lessi mille anni fa, un romanzo di una giovane cinese che poi scoprii essere amica di alcuni conoscenti. Il romanzo mi era piaciuto, parlava di ribellione, di sesso, di punk a Pechino. Ricordo che il mio coinquilino nel dormitorio studentesco, un vietnamita di qualche anno più grande di me, si masturbava con un film ispirato a quel libro. Scoppio quasi a ridere. L'esaminatrice mi guarda perplessa.
Io invece penso che dovrei uscire di qui e andare a farmi due risate da qualche parte, magari in un bar, cullato dai ricordi pechinesi. Prima però devo finire questo cavolo di esame. Ci sono! L'autrice di quel romanzo può far da risposta a quell'ultimo quesito. Davvero. E' così. Semplice. Riprendo a scrivere, di botto, come viene. Concludo con una frase del tutto personale, l'ego che stupra, trapassandolo, il foglio. Non mi resta che aspettare l'ora della consegna. Senza ricopiare il testo, direttamente in brutta copia (per me bella), come quando da bambino alle elementari mi piaceva pensare "perché, signora maestra, Paganini non ripete". Poco dopo consegno il tutto in una busta sigillata, saluto gli esaminatori e corro via verso gli spazi aperti, la città, l'aria fredda di fine autunno, i timidi raggi del sole del primo pomeriggio. Via verso il primo bar, una pizza, una birra e quei tanti, tanti ricordi.
Torno in università solo alcune ore dopo e mi siedo in un'aula studio con altri studenti per lavorare al computer. Si imparano un sacco di cose stando vicino ai giovani, stando vicino agli studenti. Ad esempio questa sera ho imparato che:
- il trapassato remoto non esiste più;
- non si mandano le e-mail da ubriachi;
- oggi a mensa davano il risotto allo zafferano;
- oggi al cinema davano quel nuovo film con quell'attore come si chiama;
- Leopolda non è il nome di un'anziana signora che batte nella provincia di Grosseto;
A me queste cose all’università non le avevano insegnate.
Dunque stavolta tocca a me: l'esame! L'ennesimo. Una serie di esami (scritti, orali, venerei e psico-attitudinali) per poter accedere ad un corso che paghi profumatamente per poi... lavorare. Cioè devi pagare per poter lavorare. Una volta se lavoravi ti pagavano. Oggi devi pagare se vuoi lavorare. Il più delle volte "a gratis". Magari per un over 50 questa è follia. Per un under 50 questa è la normalità e sappiamo entrambi di saperlo.
Bene. Allora esaminiamoci. Ragionavo l'altra sera con mio cugino e con una mia studentessa che anche un esame facilissimo se non ben preparato risulta automaticamente difficile o quasi impossibile. Io non l'ho preparato. Non ho avuto tempo. E meno ancora voglia. Se uno lavora (un paio di lavoretti, più il volontariato e l'auto-assistenza-sociale), difficilmente ha voglia di preparare esami. Gli esami si preparavano quando sei studente e di mestiere studi.
Chi non prepara un esame non può che provare a girare la ruota. E così ho fatto. Abbastanza serenamente, senza ipocrisie: sai di non aver studiato, ma provi ad affrontare ugualmente la prova. Sempre un'emozione bellissima ri-sedersi tra i banchi munito solo di penna e vocabolario monolingue cartaceo, gli esaminatori in piedi davanti a te a spiegare le regole del gioco. Quando viene distribuito il testo d'esame sai che a breve si parte. Tre pagine in tutto. Spulcio veloce con lo sguardo i quesiti. Chiudo. Primo pensiero: "va bene, dai, si può fare". Ci ripenso: "Sì, è facile, ce la posso fare". Parte automatico un sorriso sdrammatizzatore. Poi rileggo una per una le tracce, i testi, le domande. Avevo tradotto male l'ultimo quesito: devo riflettere bene sulla risposta. Fa niente, ci penso dopo. Il resto si può fare, anzi, lo faccio subito...
E giù a scrivere a capo chino, un occhio al vocabolario e l'altro al foglio, la penna in una mano, quel che resta dei capelli nell'altra. Scrivi, scrivi, scrivi. Il tempo passa in fretta, dopo un'ora e venti minuti ho pressoché terminato il lavoro, resta solo quella domanda che mi desta qualche perplessità. Poso la penna al tavolo, il mento fra le mano. Fisso l'esaminatrice, che a sua volta fissa me. Una professoressa cinese, una bella signora cinese. Penso alla Cina. Ai miei sei anni e passa in Cina. Alla mia vita a Pechino. Ripenso ad un romanzo che lessi mille anni fa, un romanzo di una giovane cinese che poi scoprii essere amica di alcuni conoscenti. Il romanzo mi era piaciuto, parlava di ribellione, di sesso, di punk a Pechino. Ricordo che il mio coinquilino nel dormitorio studentesco, un vietnamita di qualche anno più grande di me, si masturbava con un film ispirato a quel libro. Scoppio quasi a ridere. L'esaminatrice mi guarda perplessa.
Io invece penso che dovrei uscire di qui e andare a farmi due risate da qualche parte, magari in un bar, cullato dai ricordi pechinesi. Prima però devo finire questo cavolo di esame. Ci sono! L'autrice di quel romanzo può far da risposta a quell'ultimo quesito. Davvero. E' così. Semplice. Riprendo a scrivere, di botto, come viene. Concludo con una frase del tutto personale, l'ego che stupra, trapassandolo, il foglio. Non mi resta che aspettare l'ora della consegna. Senza ricopiare il testo, direttamente in brutta copia (per me bella), come quando da bambino alle elementari mi piaceva pensare "perché, signora maestra, Paganini non ripete". Poco dopo consegno il tutto in una busta sigillata, saluto gli esaminatori e corro via verso gli spazi aperti, la città, l'aria fredda di fine autunno, i timidi raggi del sole del primo pomeriggio. Via verso il primo bar, una pizza, una birra e quei tanti, tanti ricordi.
Torno in università solo alcune ore dopo e mi siedo in un'aula studio con altri studenti per lavorare al computer. Si imparano un sacco di cose stando vicino ai giovani, stando vicino agli studenti. Ad esempio questa sera ho imparato che:
- il trapassato remoto non esiste più;
- non si mandano le e-mail da ubriachi;
- oggi a mensa davano il risotto allo zafferano;
- oggi al cinema davano quel nuovo film con quell'attore come si chiama;
- Leopolda non è il nome di un'anziana signora che batte nella provincia di Grosseto;
A me queste cose all’università non le avevano insegnate.
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