Prato non doveva morire
"Guardi il ragazzino cinese dagli occhi acquosi che viene accompagnato dentro un cellulare della polizia insieme agli altri otto clandestini, e pensi a come faranno a intendersi, in questura, tra i poliziotti e loro, visto che non sanno una parola d'italiano. Ti chiedi come possa sembrargli reale, questa loro esistenza di viaggio in luoghi lontanissimi e sconosciuti. Ti chiedi cosa pensino di noi e della nostra vita e delle nostre leggi perché, certo, ai figli di quella Repubblica Popolare Cinese che fece bastonare a morte la sua migliore gioventù dai soldati analfabeti portati a Pechino in camion dalla Mongolia Inferiore deve apparir comico che in Italia la polizia bussi alla porta e stia ad aspettare che qualcuno apra, che accerti un'illegalità e nessuno alzi nemmeno la voce, che trovi dei clandestini e li consegni a un destino tiepido ed ineffettuale: quello d'essere semplicemente accompagnati in questura e fatti accomodare in una stanza dove i poliziotti passeranno ore a cercare di capire i loro nomi, e quando gli parrà d'aver capito i loro nomi gli metteranno in mano un foglio scritto in una lingua che non capiscono, in caratteri che non capiscono, e gli ordineranno di uscire subito dall'Italia e poi li lasceranno andare, di nuovo liberi come uccelli, liberi di poter tornare dai loro amici a raccontare questa storia incredibile e sdraiarsi in terra a battere i pugni dal ridere e farsi rinchiudere subito in un altro capannone a lavorare come ciuchi, sempre a Prato - se sanno che si chiama così, questa nostra città piena di vento."
Dal romanzo "Storia della mia gente", di Edoardo Nesi.
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